il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2016
La meteo-climatologia è una disciplina di serie B, eppure gli italiani sono ossessionati dal tempo
I tagli alla ricerca degli ultimi otto anni stanno mettendo a rischio interi settori del sapere. Uno di questi è la scienza della meteorologia e dei cambiamenti climatici (meteo-climatologia), come spiega Stefano Tibaldi, ultimo tra i docenti universitari in questo settore. Da poco andato in pensione, è stato docente di fisica dell’atmosfera all’università di Bologna. “In Italia, la meteo-climatologia è una disciplina che non ha mai avuto una sua specifica dignità, è sempre stata ospite di altre discipline. Ora che i soldi per la ricerca non ci sono più, la situazione è peggiorata.” In meteorologia, non esistono più corsi di laurea specifici nel nostro Paese, racconta. Esistono solo alcune lauree specialistiche in fisica e ingegneria dove trovano un po’ di spazio la fisica dell’atmosfera e la meteorologia. “Prima esisteva la laurea triennale in fisica della meteorologia a Bologna, Ferrara e Roma. Ma ormai questi corsi sono chiusi.” La riforma Gelmini del 2010 – spiega – prevede che una certa quota di professori siano di ruolo presso l’università dove si tiene il corso di laurea.
Ma per la meteorologia, ci sono solo un pugno di docenti in tutta Italia, quindi non è più possibile mantenere attivi i tre corsi. “Stavano in piedi grazie al contributo di docenti esterni, assunti presso altri enti, come il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).” Ma ora non si può più. I giovani che hanno interesse per queste discipline sono costretti pertanto ad andare all’estero. “Su dieci persone che nutrono tali interessi, solo uno o due sono disposti a trasferirsi in un altro Paese per dedicarsi alla meteorologia. Gli altri decidono di fare un percorso universitario diverso”.
Se ci fosse un sistema organizzato di gestione del finanziamento in questo settore, e di trasmissione accademica del sapere, con pochi soldi in più si potrebbe fare moltissimo per la meteorologia nazionale e per i giovani che intendono studiarla, sostiene Tibaldi. Un po’ di ricerca pubblica si fa ancora, certo, in enti come Ingv e Cnr, presso alcune università e agenzie regionali. Ma è estremamente ridotta rispetto a quella di nazioni con un Pil paragonabile al nostro. “Uno dei principali problemi, in Italia, è la mancanza di un servizio meteorologico nazionale civile, luogo deputato a ospitare gran parte della ricerca autonoma, oltre che a intercettare la richieste degli utenti.” Le discipline applicate crescono se c’è una domanda che stimola la ricerca. È un ciclo che se non viene alimentato non permette lo sviluppo del settore, spiega.
Oltre alla ricerca pubblica, c’è il servizio meteorologico dell’areonautica militare, “che si appoggia a servizi meteo internazionali”. La Protezione Civile ha il suo servizio grazie ai dati delle agenzie regionali di protezione dell’ambiente e le Arpa, dice. Altri utenti importanti sono i produttori di energia, che si rivolgono all’estero per i dati meteo. Così come fanno anche le compagnie di navigazione. “Siamo al traino di ciò che gli altri decidono, come accade per i paesi del terzo mondo. Che non possono stabilire in autonomia cosa è importante studiare per le loro esigenze specifiche, ma sono a rimorchio di ciò che gli altri decidono che è importante. Per l’Italia non è molto diverso, sostiene Tibaldi. Abbiamo necessità peculiari, ma non siamo in grado di rispondere adeguatamente alle richieste che vengono dal nostro stesso Paese. “Abbiamo bisogno che diventi prima il problema di qualcun altro, e sperare che decida di risolverlo, così da risolverlo anche per noi.” Ad esempio, quando si tratta dei problemi legati al cambiamento climatico del Mediterraneo. Alcuni rari fenomeni meteorologici osservati nel Mediterraneo, i cosiddetti Medicanes, sono cicloni simili a quelli tropicali e possono causare danni importanti. “Se il nostro sistema fosse migliore, li conosceremmo meglio, sapremmo prevenirne meglio le eventuali conseguenze.”
Un altro aspetto riguarda l’aumento del livello del Mediterraneo. “Sappiamo tutto di quanto aumenta il livello degli oceani, a causa del riscaldamento globale, ma non sappiamo abbastanza sul reale aumento del mare che bagna le nostre coste.” Con un sistema ben strutturato e maggiori investimenti, potremmo essere i principali studiosi dei problemi del Mediterraneo, e fornire noi i dati agli altri, generando così anche un indotto economico. Al momento, invece, non abbiamo dati di qualità nemmeno per progettare le grandi opere, che devono tener conto del cambiamento climatico. Un esempio è la progettazione del sistema fognario delle grandi città: è cruciale sapere con precisione quanta acqua può piovere in un’ora in quello specifico posto. “Ma i dati che abbiamo sul clima, per l’Italia, risalgono a 30 anni fa. E sono sparsi in mille rivoli, mentre dovrebbero quantomeno essere accessibili gratuitamente in un unico database.”