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 2016  aprile 17 Domenica calendario

Perché la sicurezza può vincere sulla paura e sul razzismo. Il caso della ragazza presa a martellate sul treno, il pugile ucraino che ammazzò una filippina per strada e la foto dei quattro rom minorenni con i pollici alzati in caserma

Giovedì 11 giugno 2015, sulla linea Trenord per l’Expo, un gruppo di latinoamericani ferisce a colpi di machete il capotreno e un collega che tenta di aiutarlo. Sabato 23 marzo 2016 una ragazza di 22 anni, in viaggio da Bergamo a Milano, viene aggredita da un romeno, pregiudicato e invano espulso dall’Italia, che con il martello frangivetro del vagone le spacca la testa e la mano con cui lei tenta di proteggersi.
La vittima non muore; viene escluso il tentato omicidio. Restano le lesioni gravi e la rapina. Bottino: 15 euro e un cellulare.
Il caso Trenord
Questi gli episodi più noti. Ma le aggressioni sui treni dei pendolari negli ultimi mesi, sempre sui convogli Trenord, sono molte di più, come ha ricostruito il nostro Giampiero Rossi. Il 15 marzo un capotreno preso a pugni a Tromello, Pavia. Il 18 marzo a Palazzolo una ragazza di vent’anni picchiata da un uomo che voleva rubarle la bicicletta. Il 20 marzo a Pioltello ubriachi molestano la capotreno, la coprono di sputi, le rovesciano la vodka addosso. Il 27 marzo a Monza una rissa tra due giovani viene risolta a coltellate. Il 30 marzo finisce in ospedale un’altra capotreno, ferita a San Giuliano da una donna a pugni e morsi; lo stesso giorno a Pioltello un uomo minaccia i passeggeri con un estintore e devasta la carrozza; altre due aggressioni a Bergamo. Il primo aprile due ubriachi molestano e tentano di rapinare le passeggere all’altezza di Rho. Il 6 aprile un uomo spacca 17 finestrini con il martelletto…
La Trenord fa sapere che ora entreranno in servizio i vigilantes. Nell’attesa, anche quando non accade nulla di grave, basta salire su un treno per Treviglio o Busto Arsizio per sentirsi in una terra di nessuno, dove comanda il più prepotente.
Pugili, assassini, liberi
Roma, 8 ottobre 2010. Alla stazione Anagnina della metro scoppia una banale discussione nella coda per i biglietti. Un pugile, Alessio Burtone, colpisce con un tremendo pugno un’infermiera romena, Maricica Hahaianu. La donna resta a terra per venti minuti nell’indifferenza dei passanti, e muore. Il pm chiede vent’anni per omicidio preterintenzionale. Burtone ne prende nove. Ridotti a otto in appello. Il 27 febbraio 2013 ottiene gli arresti domiciliari. Dal 26 gennaio 2015, a quattro anni e tre mesi dall’omicidio, è un uomo libero.
Oleg Fedchenko, ucraino, pugile per hobby, 25 anni, ha litigato con la fidanzata. Scende in strada a Milano, in viale Abruzzi, deciso a uccidere la prima donna che incontrerà. È il 6 agosto 2010, la città è semideserta, i milanesi sono in vacanza. Emlou Arvesu, filippina, sta tornando a casa stanca dopo una giornata di lavoro. L’ucraino comincia a colpirla e non smette fino a quando la povera donna muore. Ma, siccome è incapace di intendere e di volere, o almeno lo era in quel momento, non va in carcere. Vengono chiesti 15 anni di manicomio criminale; ne avrà cinque. Dopo due anni e mezzo sarà estradato in Ucraina e subito liberato. Ha ucciso una donna: non ha fatto un giorno di carcere, non ha pagato un euro di risarcimento.
La felicità del male
Le fotografie di Doina Matei sorridente al primo sole del Lido di Venezia, e dei quattro minorenni rom con i pollici alzati in caserma dopo il fermo, hanno un effetto potenzialmente devastante. Innanzitutto sui genitori di Vanessa Russo, 23 anni, la vittima della ragazza romena, che hanno chiesto la pena di morte. Siamo la patria di Cesare Beccaria, e ne siamo orgogliosi; ma tra il Texas – o l’Arabia Saudita, o la Cina – e il lassismo esiste pure un giusto mezzo. Nove anni fa, in questi stessi giorni, Doina Matei uccise Vanessa in modo atroce per futili motivi, infilandole un ombrello in un occhio dopo una lite su chi aveva spinto chi; la foto al Lido le è costata la semilibertà, per qualche tempo. I minorenni non hanno compiuto un delitto di sangue; hanno spaccato una vetrina con un tombino divelto per rubare dei telefonini. Ma il senso di impunità che comunica quell’immagine ha la forza di un contagio. Sulla Stampa Massimo Gramellini si è chiesto cosa impedisce di mandarli, se non in carcere, a fare gli spazzini in un parco pubblico o i camerieri alla mensa dei poveri. In effetti lavorare per gli altri può dare quella gratificazione che viene dal rendersi utili alla comunità anziché di danno. La legge in teoria già prevede percorsi di rieducazione e reinserimento. Ma quanti li seguono davvero? E con quali risultati?
Le vittime
La casistica potrebbe essere lunghissima. Le vittime di furti, rapine, aggressioni, ferimenti appartengono quasi sempre alle classi popolari o ai ceti medi. Passeggeri dei treni per i pendolari, lavoratori che frequentano le stazioni periferiche della metropolitana. Non è questione di nazionalità: a volte le vittime sono straniere, e i colpevoli italiani.
L’immigrazione e la sicurezza sono dossier distinti. I politici che tentano di strumentalizzare la paura per fini elettorali non hanno a cuore il bene comune. Ma negare la paura è inutile, e controproducente. Occorre rimuoverne le cause. Anche dando ai nuovi italiani il senso dei diritti e dei doveri.
Le persone che sbarcano a migliaia ogni giorno a Lampedusa e sulle coste del Sud non vengono certo allo scopo di delinquere. Fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla povertà, alla ricerca di un futuro migliore. La percentuale di chi è disposto a commettere reati è certo infinitesimale; ma esiste, come esiste tra noi italiani. Arrivare in un Paese con la più forte criminalità organizzata d’Europa sempre alla ricerca di manovalanza, dove in alcune regioni il lavoro nero è norma, dove almeno un quarto della ricchezza è di origine illegale o criminale, espone a tentazioni. Non a caso il 32 per cento dei detenuti in Italia è straniero, 11 punti in più della media europea. Se poi il nuovo arrivato vede che il male spesso resta impunito, la tentazione può aumentare.
Siamo impreparati non soltanto dal punto di vista legislativo e giudiziario, ma anche da quello culturale. Parlare di legalità significa risvegliare tic ideologici, per cui si diventa «forcaioli» o «fascisti». Ma, senza attendere Tony Blair – «dobbiamo essere duri con le cause del crimine, e duri con il crimine» —, anche il vecchio Labour parlava di «pane e ordine», parafrasando il «legge e ordine» dei conservatori. La sicurezza è un problema innanzitutto per i ceti meno garantiti. E non è affatto incompatibile con l’impegno contro la corruzione dei politici, degli imprenditori, dei colletti bianchi; anzi, è l’altra faccia della battaglia per la legalità. La paura e il razzismo si prevengono e si battono anche così.