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 2016  aprile 17 Domenica calendario

A casa di Charlie con il figlio Chaplin

Un camino acceso. Sul tappeto un magnetofono in funzione. Un’orchestra risuona in questo salone ricco di mobili antichi e quadri, legno prezioso e cornici dorate, porcellane di Dresda ed elefanti d’argento. Seduto in poltrona c’è Charlie Chaplin. Ha ottantasei anni, abito nero, capelli bianchissimi. Incrocia le mani mentre intona con un soffio di voce il verso di una canzone,
A little bit faint, poi aggiunge: «Me la cantava sempre mia madre». Su un’altra poltrona è seduta la moglie, Oona O’Neill. Sorride, guarda il marito, la mano poggiata sotto il mento. È una delle scene finali del documentario
Il vagabondo gentiluomo, che cattura con il sapore da filmino di famiglia quella che potrebbe essere stata una domenica pomeriggio lenta, vissuta dai Chaplin nella grande tenuta a Corsier- Sur-Vevey, piccolo villaggio svizzero sulle rive del lago di Ginevra: piazzetta con chiesa, vecchia locanda, stradina per il cimitero, proseguendo verso la collina si arriva al Manoir de Ban, una casa costruita a metà Ottocento, in stile neoclassico, immersa in un parco di quattordici ettari. Chaplin ha vissuto qui dal 1952, da quando accusato di antiamericanismo durante il maccartismo non poté più rientrare negli Stati Uniti, fino al giorno della morte, il 25 dicembre 1977. Da oggi la casa apre al pubblico. Per l’occasione è stata creata anche una nuova fermata dell’autobus 212, la fermata Chaplin. Chi scende qui attraversa la strada ed entra nel “Chaplin World’s Museum”.
Due persone speciali mi conducono in questo tour guidato a pochi giorni dall’inaugurazione: Michael Chaplin, uno degli otto figli avuti con Oona O’Neill, e Edita Spinosi «nata Imperatori», come precisa lei, ottant’anni, che in questa casa ha vissuto prima che venisse a viverci la famiglia Chaplin. Perché poi alla fine questa è la storia non solo della casa di un uomo molto famoso, ma la storia di ciò che tutti noi lasciamo nei luoghi che abitiamo, l’eco che rimane quando ce ne andiamo, pronto per essere sentito da chi pagherà un biglietto ed entrerà a vedere dove le cose sono accadute. «La prima volta che ho sentito parlare del Manoir è quando nostro padre venne a prenderci in albergo, dove vivevamo da mesi, e ci disse – Vi faccio vedere la vostra nuova casa», ricorda Michael. All’ingresso, dove oggi c’è una statua di Charlie Chaplin immortalato in un saltello mentre con una mano saluta chi entra, un giorno degli anni Sessanta ad aspettare il figlio, oggi settantenne, c’era il padre in carne ed ossa. «Anche lui aveva una mano sollevata, ed era diretta sulla mia guancia. A quindici anni mi ero innamorato di una ragazza che lavorava a Losanna, e così invece di andare a scuola andavo da lei. Fino al giorno in cui mio padre lo scoprì...». All’interno della villa le pareti sono biografia e i corridoi album fotografici. Domenica 4 dicembre 1960 la famiglia al completo è in posa al cinema Rex di Vevey. Mercoledì 15 ottobre 1964, Charlie è tra il pubblico del circo Knie. Ed eccolo ancora che guarda il lago al tramonto, che scherza sul patio con la figlia Geraldine. Tutta la sua vita scorre sopra la spalliera del letto. Vicino alla finestra c’è un tavolino con sopra uno schermo, delle carte da poker si muovono in animazione. Sulla sedia non è ancora stato posizionato il manichino, così sembra che nella sua stanza ne aleggi lo spirito. «La mattina di Natale del 1977 mi svegliarono alle quattro per dirmi che era morto», racconta Michael. «Era nel suo letto, grande, solido, gli ho preso la mano e sono rimasto lì a guardarlo. Mia madre ha voluto lasciare la camera intatta. Ha fatto ridipingere il resto della casa, ma la sua camera mai». Venne però chiamato un fabbro per fare aprire il tiretto del grande comò che era nella stanza del padre. Dentro vi trovarono una lettera, “Ciao Charlie, in merito alla casa in cui dici di essere nato, sei un piccolo bugiardo ma puoi essere perdonato perché effettivamente non sai dove sei nato, e chi sei veramente. Se vuoi saperlo te lo dico io: sei nato in una roulotte, era bella e apparteneva alla regina degli zingari, mia zia”. Michael riflette: «Penso non avesse mai parlato a nessuno di quella lettera, ma per me fu un ritrovamento meraviglioso: sapere chi sei, da dove vieni, e custodirlo in un cassetto».
Altro momento meraviglioso alla fine degli anni Cinquanta, nella biblioteca: «Mio padre stava lavorando alla sceneggiatura di Un re a New York e mi fece capire che avrei avuto un ruolo. Avrei interpretato un ragazzino precoce, dalle idee rivoluzionarie. Il contrario di ciò che ero, timido e in ritardo sulle cose». Ad aiutarlo a imparare la parte ci pensò la governante: «Al Manoir eravamo un piccolo Stato. C’erano uno chauffeur, un maggiordomo, una cuoca, un aiuto cuoca, tre cameriere, tre giardinieri, una segretaria. Quando volevo stare solo mi alzavo la mattina alle cinque e passeggiavo nella foresta tra volpi e cervi».
«Quando sento questi racconti di famiglia rivedo la solitudine di mia madre in questa casa immensa» ricorda anche la signora Edita, quasi sottovoce: «I miei genitori, Wilheilm ed Edit, la comprarono nel 1939. Mio padre l’ha vissuta per un solo inverno». Continuiamo a camminare ed Edita è talmente emozionata che rischia di inciampare ogni volta che indica un angolo della casa, proiettando ciò che ancora vede: «Qui è dove mamma mi disse che mio fratello era stato ferito in guerra. Ero una bambina e per me ferirsi equivaleva a farsi un taglietto, non alla morte. E qui è dove mi disse di aver venduto casa, io l’abbracciai forte perché volevo andarmene via, volevo una casa normale, sognavo un condominio».
Fuori dal cancello passa Roberto Rossellini in Ferrari, a indicarcelo è Michael: «Mi piaceva stare seduto sul muretto a guardare le auto passare. Un giorno fu quella di Roberto Rossellini, voleva mostrarla a mio padre e ci propose di fare un giro a Losanna. Sulla strada incrociammo una Cadillac e cominciammo a gareggiare, con mio padre che diceva – Vai Roberto, vai, superala! Era un bon vivant, gli piaceva avere gente intorno, si divertiva a vedere i suoi bambini, amava mangiare bene e godersi la vita, ma nell’intimo penso fosse anche molto tormentato, non così certo del valore di ciò che aveva fatto. Mio padre si sentiva solo nella vita e in ciò che aveva realizzato, e dunque a volte c’era una sorta di pesantezza che io, bambino, avvertivo».
Il pianoforte dove Chaplin compose le musiche dei suoi film, dove ogni Natale suonava la pianista Clara Haskil, dove si sedeva quando aveva dei pensieri, è di nuovo qui, nel salone in cui cantava A little bit faint. D’estate lavorava in terrazza, dove anni prima Edita aveva giocato con le due bambine rifugiate che la madre accolse durante la guerra. Nello studio in cui Chaplin dettava le sceneggiature alla segretaria oggi c’è una statua, indossa uno smoking e solleva un bastone con in cima un cilindro. Manca ancora la testa. Mi dicono che arriverà presto, si tratta di Winston Churchill. Una pila di riviste d’epoca è ancora avvolta dal nastro. Il vecchio apparecchio televisivo in bianco e nero deve essere ancora collegato. Su un mobile ci sono un magnetofono, un giradischi e una collezione di vinili che sfoglio velocemente pensando ai diversi momenti in cui hanno risuonato in queste stanze: una raccolta di canzoni tirolesi, l’ensamble del coro dell’Armata Rossa, canzoni popolari cinesi, musica cubana e un album del 1971 di Catherine Le Forestier, Les pays de ton corps, una struggente ballata che parla di un uomo fatto di stagioni, di cielo e di orizzonti. Al telefono Mario Govoni, un uomo di novant’anni che ha lavorato prima come autista e poi come maggiordomo per la famiglia Chaplin, mi racconta di quando la signora Oona gli chiese di accompagnare Michael Jackson nei sotterranei della casa, dove c’era l’archivio delle pellicole: «Lui non parlava francese, io non parlavo americano, c’intendevamo benissimo».
Camminando per la casa-museo incontriamo altri ospiti. Sophia Loren in sottoveste, Albert Einstein che si specchia nel bagno, lo stesso padrone di casa che esce dalla vasca in cui fu girata una scena di Un re a New York. Nella biblioteca ci sono i libri che gli facevano tenere accesa la luce fino a tardi, le poesie di Byron e di Keats. Una scalinata porta alla soffitta, un grande spazio vuoto che sarà possibile affittare per eventi privati e che ospitava le camere dei bambini. Ci affacciamo alla finestra: «Quello è Le Grammont», dice Edita indicando il monte che si vede in lontananza, «si dice che quando la neve si scioglie si può fare il bagno nel lago». Michael aggiunge: «La vita è piena di ricordi, meglio guardare avanti».
La mia autobiografia, che Charlie Chaplin scrisse qui tra il 1959 e il 1963, termina con queste parole: “...Oltre il lago i monti silenziosi, e in questo stato d’animo non penso che a godermi la loro magnifica serenità...”.