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 2016  aprile 16 Sabato calendario

I corsi alle madri musulmane per prevenire il terrorismo

«Ha poco tempo a disposizione una madre per cercare di fermare il figlio o la figlia che intendano partire volontari per combattere con i ranghi di Isis in Siria, Iraq, oppure unirsi a qualche sua cellula in Europa. L’esperienza ci insegna che possono trascorrere meno di tre mesi da quando i giovani mostrano i primi segni di aver aderito al radicalismo islamico al passo concreto di rompere con la famiglia e imbracciare il fucile». E tre mesi sono davvero nulla, specie se non si è abituati al dialogo con i figli adolescenti o poco più, distratti dal lavoro, dalla casa da tirare avanti. «Proprio per insegnare alle mamme ad ascoltare ed essere ascoltate abbiamo istituito corsi speciali in Austria con l’idea di diffonderli in tutta Europa. Prevenire è meglio che combattere in ritardo gli effetti della predicazione salafita e del terrorismo, quando la violenza è già scoppiata. Questa è anche la strategia della polizia austriaca», racconta Edit Schlaffer, 65 anni sociologa all’università di Vienna, che dal 2001 dirige l’organizzazione non governativa «Donne Senza Confini».
Incontrarla nella sede in centro città, dove al momento una cinquantina di madri seguono i programmi dell’organizzazione, equivale ad immergersi nella pieghe dello scontro-incontro con l’Islam in uno dei Paesi europei storicamente più coinvolti. Le donne sono quasi tutte musulmane. Tante bosniache e specialmente cecene. Ma anche qualche cristiana, visto che circa un quarto dei militanti austriaci di Isis sono convertiti. «In genere le madri dei jihadisti sono estremamente sospettose di tutto ciò che appare sui social media, per loro la Rete è il nemico che ha corrotto i figli, temono i leader religiosi locali, ma neppure si fidano della polizia. In sostanza non sanno a chi chiedere aiuto. Isis sta perdendo terreno in Medio Oriente, ora punta all’Europa: loro sono in prima fila. Abbiamo osservato sul campo che in circa 100 ore di incontri a quattr’occhi un bravo predicatore filo-Isis è in grado di indottrinare alla sua causa un qualsiasi ragazzino in crisi d’identità», aggiunge, puntando il dito contro l’Arabia Saudita, responsabile a suo dire di finanziare alcune delle moschee più radicali in Austria. Un fenomeno che ricorda le madrasse (scuole coraniche) pachistane pagate coi petrodollari sauditi e del Golfo, che furono tra le culle di Al Qaeda.
«La comunità cecena è tra le più difficili da contattare per noi. E questa è una novità nella lunga storia di dialogo con l’Islam tipica del nostro Paese», osserva ancora Schlaffer a sottolineare gli sforzi per rapportarsi con gli immigrati delle province musulmane dell’ex Unione Sovietica. Le memorie delle antiche regioni islamiche dell’Impero asburgico costituiscono infatti tutt’oggi la base per la tradizione di convivenza. Qui ricordano che nel 1912 l’Islam fu persino riconosciuto religione ufficiale al pari di quella cattolica.
Eppure l’estrema destra usa le simbologie guerriere dell’ultimo assedio ottomano di Vienna nel 1683 per galvanizzare il Paese contro «una nuova invasione». La statua di Marco d’Aviano, il frate Cappuccino di origine italiana che al tempo dell’assedio fu tra i più accesi predicatori della guerra santa contro i «barbari musulmani», domina la chiesa in centro dove sono sepolti gli imperatori asburgici. «Date un’anima all’Europa in cui, senza sminuire le altre religioni, si dà più forza alla nostra identità cristiana», si legge sui pamphlets nella cripta dove è sepolto. «Curioso che Isis non parli dell’assedio ottomano nei suoi proclami, lo citano invece gli xenofobi nostrani», spiega Rudiger Lohlker, professore di islamistica all’Università di Vienna.
I dati comunque sono chiari: tra tutti i Paesi europei, l’Austria è uno di quelli con il tasso più alto di volontari di Isis rispetto alla popolazione. Oltre 260 militanti su otto milioni e mezzo di abitanti. Età media meno di 25 anni, per lo più di origine cecena, seguiti da bosniaci e siriani. Tra loro anche 25 donne. Il censimento del 2014 parlava di 600.000 musulmani (il 7% degli austriaci), di cui quasi 120.000 turchi, 51.000 bosniaci e 34.000 afghani. Anche Lohlker non esita a mettere l’accento sul «problema» ceceno, nonostante la loro comunità si aggiri solo sulle 30.000 persone: «Sono ottimi combattenti con la fama di uomini duri e crudeli. Molti vedono la guerra in Siria contro Assad e il suo alleato Putin come la logica continuazione della lotta contro l’occupazione russa della Cecenia con il suo bagaglio di orrori, massacri e soprusi».
Non è dunque strano che diversi tra i frequentatori della «Altun Alem», la moschea più radicale di Vienna ricavata nelle cantine di un palazzo anonimo nel quartiere che porta lo stesso nome, siano giovani ceceni. Pochi mesi fa qui la polizia ha arrestato l’imam bosniaco Mirsad Omerovic, meglio noto come «Ebu Tejma», accusato di aver radicalizzato nel 2014 Sabina Selimovic (16 anni) e Samra Kesinovic (17), ragazzine partite cariche di entusiasmo per diventare spose degli «eroi del Califfato» e morte poco dopo. Una, si dice, sotto un bombardamento e l’altra forse uccisa dai jihadisti perché cercava di fuggire.
Incontrare i frequentatori della moschea per un giornalista dichiarato è quasi impossibile. C’è stato anche il caso di minacce con la pistola contro una troupe. Venerdì scorso un giovane albanese ci ha bloccato prima di raggiungere la porta: «La stampa non è gradita». Ci dicono che il nuovo imam sarebbe disponibile a un’intervista, ma non si fa trovare. «Qui i non musulmani non possono entrare e men che meno i giornalisti», ripete determinato un giovane dalla barba talebana.
Molto più semplice è parlare con il cinquantenne Adam Bisaev, immigrato a Vienna da Groznij e cultore di arti marziali in una palestra che fa da centro sociale per i ceceni. «Lo sport aiuta l’integrazione e combatte il pregiudizio. Noi siamo stigmatizzati come terroristi. Ma la stragrande maggioranza della nostra comunità aspira a vivere in pace», lamenta. Con un dettaglio in più per intendere le ragioni del malcontento ceceno: «Siamo un piccolo popolo di un milione mezzo di abitanti. In 15 anni l’esercito russo ha massacrato oltre 300.000 ceceni. E il mondo si è girato dall’altra parte».