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 2016  aprile 16 Sabato calendario

Ron racconta il suo amico Lucio Dalla e “Piazza Grande”, nata fischiettando

Nelle foto di metà anni 70 sugli scogli delle Tremiti, tra Lucio Dalla e Rosalino Cellamare in arte Ron, c’è sempre una chitarra: “Fino al 1977, fedele alle classiche, Lucio non aveva mai usato quelle acustiche in un disco. Non sapeva come arrangiare Com’è profondo il mare, il primo disco di cui aveva scritto i testi dopo la fine della collaborazione con Roversi e si aggirava sconsolato. Ogni tanto, dall’agendina di pelle su cui annotava pensieri e frasi, tirava fuori un verso. ‘Senti questo e dimmi se ti piace: il pensiero è come l’oceano: non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare’. Il testo era potente, ma aveva bisogno di un accompagnamento che non lo penalizzasse. Così un giorno gli feci sentire un assolo. Rimase un po’ perplesso. Insistetti. ‘Prova a cantarci sopra’. E in un attimo si creò un vento, una magia, un cambio di atmosfera. Nella vita ho avuto tante fortune, ma affiancare Dalla nel suo periodo più ispirato è stata la più grande”. Con la valigia al fianco e l’acqua minerale nella destra, Ron è a Roma, pronto a riprendere il treno verso casa: “Come i cantanti americani della West Coast che tanto amavo facevano spesso. In un filmato vidi Joni Mitchell e Neil Young attraversare pianure desolate a bordo di un vagone e decisi che avrei detto basta agli autisti e ai trasferimenti impersonali organizzati dalle agenzie. Da allora salgo in treno e non c’è occasione in cui non mi capiti di parlare con qualcuno”.
A ben guardare, Ron ha duettato spesso e ha avuto sempre un interlocutore. Nel disco appena uscito (La forza di dire sì, il suo 24°, in cui gioca tra gli altri con Bertè, De Gregori, Jovanotti e di cui devolverà la metà dei proventi alla lotta contro la Sla), nel Sanremo che vinse (anno 1996, sul palco con Tosca) e anche quello in cui questo lombardo di quasi 63 anni si mostrò per la prima volta in pubblico dalla città dei fiori. Edizione 1970, scena divisa con Nada. “A Sanremo avrei dovuto cantare una canzone diversa, Occhi di ragazza”.
Che venne scartata.
Una cosa incredibile. La canzone era bellissima ed era convincente anche il provino che avevo sostenuto. Dalla era entusiasta.
A Sanremo andò lo stesso.
Ho rivisto quell’esibizione con Nada poco tempo fa. Cantavamo Pà diglielo a mà. Non proprio un granché. Ma che fame avevamo e che occhi. Quegli occhi lì mica lo so se ce li ho ancora.
Affrontò prove e provini fin dall’inizio.
Sono cresciuto a Garlasco, che per troppo tempo è diventato un indegno, schifoso accampamento per la morbosità mediatica, ma che cinquant’anni fa era solo un posto di campagna molto lontano dalla metropoli. Da bambino correvo nei campi di grano per cantare a squarciagola ed ero solo un ragazzino con i capelli rossi, i pantaloni corti, le lentiggini e i miei sogni.
Che tipo di sogni?
Quelli che poi si sono realizzati. Volevo cantare. Trovai una maestra dalla passione incredibile. Si chiamava Adele Bartoli, mi formò e forse è stato un peccato.
Perché?
La signora Bartoli fu straordinaria, ma io non credo che il canto si possa insegnare. Credo però che un pessimo maestro di canto possa rovinarti, cambiarti l’indole, toglierti quella personalità che soprattutto agli inizi non avrebbe bisogno di essere frenata.
Lei ce l’aveva?
Io suonavo. Ennio Melis, il gran capo della Rca, tutte le volte che mi incontrava mi diceva: “Ecco il falegname della musica”. Aveva ragione. Non ero fatto per gli affari comunque. Non sapevo niente. E certe volte se non sai cosa dire è molto meglio tacere.
Parlava con la chitarra.
Ascoltavo James Taylor e Carole King. Ogni tanto mi infilavo con le mie sonorità in un disco di Venditti e De Gregori. Nella Rca di allora, un mondo a parte, vivevo l’atmosfera dell’epoca in seconda fila.
Le è mai pesato?
Mai. È vero che all’epoca dei cantautori politicizzati, quelli come me, che venivano dalla tv o da Un disco per l’Estate erano rimasti praticamente senza voce perché ritenuti commerciali, ma è altrettanto vero che avere una visione e una consapevolezza generale nel mio caso richiese molto tempo. Non avevo l’esperienza per scrivere testi. Non ci pensavo proprio.
Come arrivò alla Rca?
Concorsi, audizioni e ancora concorsi. Ne vincevo molti e a un certo punto dalle parti di Garlasco fecero capolino anche i benedetti talent-scout.
Benedetti?
E Benedetti sì, che altrimenti sarei potuto restare serenamente nelle balere della regione.
Invece arrivò a Roma.
Mi accompagnò mio padre, una persona semplice. Al secondo minuto incontrò Renato Zero. Renato aveva una coda di leopardo che gli spuntava dal di dietro e una paio di enormi occhiali con le luci intermittenti. Gli andò subito vicino. Un po’ perché Renato, un genio, aveva un sesto senso bestiale e sentì l’odore della preda. Un po’ perché riconosceva le sue vittime e non faceva mai le cose a metà. “Chi posso intrappolare?” pensò. E intrappolò papà.
Cosa gli disse?
“Ciao Nì”. Bastò e avanzò. Mio padre cominciò a strattonarmi per la giacca: “Andiamocene immediatamente, ho visto quel che dovevo vedere”.
I Cellamare, persone semplici.
Tanto semplici da spingere Lucio a rieducarmi: “Dì cazzo” mi diceva. E io: “Non ci penso neanche, perché dovrei dire cazzo?”. “Hai un linguaggio troppo forbito, non è possibile, dì cazzo almeno una volta e non ne parliamo più”. Erano scene che Lucio faceva anche davanti a venti persone. Provava a tirare fuori la tua parte nascosta, anche quella che magari non avevi nessuna voglia di rivelare.
Lei teneva il punto.
Sapevo stare al mio posto, ma non sono mai stato un signorsì.
Per anni lei ha frequentato Dalla nella sua casa di Bologna.
E se ci penso è triste perché Bologna senza Dalla è morta. Non c’è più luce, non c’è più festa, non c’è più niente. Da Lucio si andava a cena in tanti e se dico tanti intendo decine di persone. Lui preparava tutto, sistemava i posti, serviva il suo vino e poi passato un quarto d’ora si allontanava: “Torno subito, scusate un attimo”. E non tornava più. Ero così abituato alle sue dipartite che non mi sono stupito neanche quando se ne è andato.
Se lo aspettava?
Mi hanno detto che non c’era più e non sono rimasto sorpreso. Lucio era così: un momento stava accanto a te, ti giravi ed era già voltato via. Io me lo immaginavo così. Un passero su un ramo spoglio. Un passero rigoglioso che a un certo punto gonfia il petto e vola via.
Perché lasciava le tavolate secondo lei?
Perché si annoiava, anche di parlare. Ciò che conosceva lo affaticava, cercava sempre qualcosa di diverso, di nuovo.
Dalla produceva il suo vino, lei fa lo stesso.
Ma alle vette di Lucio non riesco ad arrivare. Il suo bianco, sedici gradi, squisito, aveva un nome imbattibile: Stronzetto dell’Etna. Non mi pare il caso di aggiungere altro.
Dalla è stato ricordato male?
Direi che aspetta ancora di essere celebrato come merita. È stato unico. Io non dispero.
Lei con Dalla ha viaggiato tanto.
Era una madonna laica. Si fermava negli autogrill e subito aveva intorno decine di persone.
Era felice di averle?
Era nel suo brodo. Lucio era il popolo. Più gente aveva intorno, più era contento. Mi ricordo i turisti che in piena estate scendevano dai pullman con le bandierine e correvano da Lucio. I napoletani impazzivano: “Quant’è bell Lucio Dalla”. E lì, nella piazzola dell’autostrada, Dalla si metteva a intonare canzoni partenopee con il timbro del tenore. Una cosa pazzesca.
Partecipava?
Mi rifiutavo. Conoscevo i miei limiti.
Che ricordi ha di Banana Republic, la tournèe del ‘79 in cui Dalla e De Gregori riempirono gli stadi?
Fu un’avventura eccezionale e delle tensioni personali tra Dalla e De Gregori che a posteriori raccontarono in molti non ho alcuna memoria. Mi ricordo invece gli stadi illuminati con gli accendini, la sensazione di poter riemergere all’aria aperta dopo i tempi cupi del terrorismo e ancora i viaggi in macchina, su una Jeep, io Francesco e Lucio a discutere dei fatti nostri o a stare in silenzio tra una tappa e l’altra.
Accanto vi passava l’Italia.
Che poi Dalla e De Gregori rimettevano nelle canzoni. Nei testi di Lucio il graffio dell’immaginazione si confonde con la vita reale, con la lettura dei giornali, con le sue passeggiate. In Treno a vela, ad esempio, parla di un cantante che improvvisa un porno comizio per un pubblico di soli veneti.
“Poi c’è gente che viene dal Veneto/per vedere il cantante Patrizio/e il suo porno comizio”. Treno a vela, 1977.
Tutti pensavano che Patrizio se lo fosse inventato di sana pianta e invece esisteva. L’avevamo visto insieme nella piazza di un paesino campano mentre raccontava da un palco malfermo sconcezze ai vecchietti.
Di un’altra piazza, Piazza Grande, inventò la musica.
Eravamo in traghetto in direzione della Sicilia. Mi uscì una specie di suono dalla bocca, una sorta di melodia, era Piazza Grande.
A metà degli anni Settanta, diretto da Vittorio De Sisti, Gigi Magni e Giuliano Montaldo, lei partecipò a tre film.
La sedia del regista, i macchinisti, le macchine da presa. Per il set impazzivo, era il mio punto debole. Feci anche un provino con Visconti per Morte a Venezia.
Avrebbe dovuto interpretare Tadzio?
Non se ne fece nulla ed è un dispiacere, perché nei film che ho fatto muoio quasi sempre. Con Magni mi incontrai anni dopo fuori dal set. Stavo tenendo un concerto al Pincio e Gigi abitava proprio lì sotto.
Venne a vederla?
Chiamò la polizia. Era incazzato nero. Venne poi a sapere che il concerto era mio e mi telefonò: “Mi devi scusare, ma anche no. ‘Sto casino non lo potete fa’”. Era il 1980. L’anno in cui incisi Una città per cantare.
“Grandi strade piene/vecchi alberghi trasformati/tu scrivi anche di notte/perché di notte non dormi mai”.
Ero in piscina con Dalla, gli feci ascoltare The road, una cover di Jackson Browne che avevo tradotto letteralmente al solo scopo di fargliela sentire e Lucio chiuse gli occhi. Era un pessimo segno, quando succedeva si addormentava spessissimo.
Accadde?
Li tenne chiusi per tutta la canzone e poi mi disse: “Non l’ho capita bene”. Gliela spiegai. “Adesso andiamo a fare il testo”. Ci lavorò due ore. E quelle due ore furono sufficienti.
Era la canzone che più piaceva a Craxi.
A lui e a Bobo. Di Bettino e dei suoi figli sono stato amico. Mi dispiace moltissimo di come sia andata a finire. A Craxi la musica piaceva. Era ospitale, amichevole, gentile. Una notte in cui suonammo fino a tardi mi lasciò il suo lettone per dormire. Mi manca. E manca il suo carisma, un carisma che Renzi non possiede e che invece per certi versi, aveva Berlusconi.
Fenomeni incontrati nel cammino?
Un’infinità. Mi piace ricordare quelli che hanno lavorato nell’ombra non per arricchirsi, ma per la pura gioia di fare musica. Uno di questi è Sandro Colombini, quello che nelle canzoni di Bennato trafficava con gli americani. In realtà Sandro aveva un’intelligenza acutissima e non trafficava affatto. Era burbero. Ma se c’era da saltare dietro a un banco di registrazione per dare una mano era sempre in prima fila.
Lei ha conosciuto anche Vincenzo Micocci, il Vincenzo che Alberto Fortis avrebbe voluto ammazzare in una sua vecchia canzone.
Io con Micocci, alla It, sono nato. Vincenzo era tiratissimo, aveva la manina molto corta e facevamo litigate selvagge sulle note spese e sul denaro, però mi ha lasciato sempre una grande libertà.
Alla Rai invece la censurarono.
Più che altro censurarono il testo de Il gigante e la bambina di Paola Pallottino. Lo spunto era tratto da una vicenda di cronaca e la storia, metaforica, descriveva una violenza carnale. Alla Rai la metafora non sfuggì. Furono durissimi: “Non vogliamo che la gente pensi che in giro esistano mostri del genere, cambiate le parole”. Così convinsi Paola Pallottino a modificare lievemente il brano e a immaginare un verso meno traumatico di quello che aveva fatto impallidire i dirigenti televisivi. La censura comunque fu efficace. In pochissimi capirono di cosa parlasse veramente la canzone. In pochi azzardarono una corretta lettura.
Prima ci ha parlato di grandi personaggi costretti nell’ombra. Cantautori che hanno avuto meno di quanto meritassero?
Ivan Graziani. Colto, intelligente, spiritosissimo, di una simpatia travolgente. Una delle persone che mi hanno fatto più ridere nella vita. Cantare in falsetto come faceva lui all’epoca non era facile. Il cantautorato pretendeva la sua dose di machismo.
Cantanti che ha ascoltato poco?
Guccini. Francesco è una persona meravigliosa e mi perdonerà perché non gliel’ho mai detto, ma ad ascoltarlo veramente non ce l’ho mai fatta. Lui scriveva testi importanti, ma per me la musica è stata sempre più importante delle parole. È un po’ la stessa ragione per cui non ho ascoltato molto Rino Gaetano. Non mi sembrava che le sue note avessero il respiro internazionale che quando suonava De Gregori, solo per fare un nome, soffiava sempre.
Dalla scrisse per lei America. Gliela regalò.
Trovai un foglio su un tavolo della Fonoprint di Bologna. Non capivo cosa fosse. Venne un inserviente: “Lucio ha detto che è per te, che è rivolta proprio a te”. Ero in brutto momento personale. Professionalmente andava tutto molto bene, ma io ero divorato dalla competizione, dal livore, dalla nevrosi e non facevo altro che lagnarmi. Il testo parlava veramente di me e sembrava volesse dirmi: “Di che cazzo ti lamenti? Perché non ti rimetti a scrivere e non la smetti di rompere i coglioni?”. Lucio non aveva torto. Poco tempo dopo mi snebbiai. E ripartii senza pensare più agli altri, ma solo a come migliorarmi.
Dalla è la persona che ha più amato nella vita?
Lucio non apparteneva a nessuno.
Perché?
Perché Lucio era di tutti.