il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2016
L’Italia di oggi è come quella che vide Stendhal, duecento anni fa
Un popolo di giganti ed eroi è stato rimpiazzato da un popolo di pigmei. La grandezza si è rifugiata all’interno degli appartamenti, dove non può penetrare l’occhio ammazzatutto del governo”: cronache dall’800, praticamente l’altro ieri. È piuttosto istruttivo, se non fosse sconfortante, leggere le acutissime note sull’Italia nel 1818 firmate da Stendhal, lucido osservatore dei malcostumi nostrani benché fosse palesemente innamorato del paese e della sua gente, Angela e Matilde soprattutto. La raccolta, curata da Vito Sorbello ed edita da Aragno, affastella impressioni di viaggio e riflessioni storico-antropologiche sulla decadenza italiana, offrendo un ritratto divertente quanto svilente del (Bel) Paese di ieri e forse di domani, visto che in due secoli poco o nulla è cambiato nel carattere nazionale. I cittadini “gridano continuamente contro la tirannia, ma appena si tratta di rovesciarla, sono colti da superstizioso rispetto”, mentre il governo “favorisce i pedanti”.
Si definisce un “romantico furioso” Stendhal; in politica, parteggia entusiasticamente per Napoleone e sfoggia spesso idee bislacche: per lui, l’Italia raggiunse il massimo splendore tra il Medioevo e il Rinascimento, dall’XI al XVI secolo, epoche in cui fiorirono le città “anarchiche e dispotiche”, animate da conflitti, passione politica, forza, libertà e pure dalla spietatezza dei governanti. Vitalità, ricchezza e noia diedero lustro alle arti e formarono “le qualità del cuore italiano: energia, diffidenza, voluttà, odio”.
Dopo l’età dell’oro, nel 1530, con l’avanzata dell’impero spagnolo, venne il tempo delle “tirannie sospettose, deboli e atroci”, astute e vili, infiacchite e immorali: nemmeno il “despota di genio” Napoleone riuscì nel 1796 a strappare la penisola dal suo tristo destino. E infatti, nell’800, il Paese è messo malissimo: è “avvilito dai preti”, espropriato delle sue menti migliori, corrotto dal voto di scambio e vessato dalle imposte, perché “là dove non c’è libertà né opinione pubblica, bisogna pagare in denaro tutti i servizi dei consiglieri dello Stato, prefetti, sottoprefetti ecc. E una concessione di 35 centesimi costa 2-3.000 franchi di salari di impiegati”.
Qui pochissimi sono istruiti, Voltaire è sconosciuto e i Lumi latitano: “Appena un soggetto interessa il pubblico è proibito parlarne”, meglio scrivere sulle gazzette locali di “inezie letterarie” o di balletto. Di politica è inutile dibattere perché qui “uno che scrive è un uomo notoriamente sospetto e la consuetudine dà ai ministri il diritto di vessarlo senza motivo”. I giornali sono pochi, poco letti e asserviti al potente di turno: “Non c’è alcuna idea della spada del cittadino (la libertà di stampa). In tutta la storia d’Italia si trovano appena due o tre scritti sugli affari del governo… Le tre grandi peculiarità di questo Paese sono che: tutti fanno l’amore; nessuno legge, e non c’è società”.
Lo scrittore ne ha persino per il teatro, per le attrici “ampollose e affettate” e i “cattivi spettacoli” della Scala, mediocri anche a causa degli emolumenti pubblici a pioggia. Perciò egli propone una riforma dell’ente lirico con una commissione e atti trasparenti: “La Gazzetta pubblicherà ogni mese il numero di biglietti distribuiti e riceverà l’ordine di essere meno elogiativa nelle sue recensioni”.
Nel grand tour a Rho (non per l’Expo) l’autore annota: “Sono sorpreso ed entusiasmato dalla incantevole e superba chiesa del Pellegrino. Ma quale misero gregge si raduna in questo tempio augusto! Non sono persone simili che hanno potuto edificare questa chiesa”.
Più a sud, invece, se la prende con la brama di potere dei fiorentini, i quali, “dietro l’esempio dei Romani, che Petrarca aveva loro spiegato, volevano governare nella pubblica piazza e al Palazzo di Città”.
Dal calderone infame si salva un poco la Lombardia perché lì “il papismo vi fa meno male” e c’è meno burocrazia: Milano, pur provinciale e pettegola, divenne infatti la città d’elezione di Stendhal che, nell’autoepitaffio, scritto in italiano 21 anni prima della morte (1842), rimarcò: “Qui giace Arrigo Beyle Milanese”. La prima opera in cui Henri Beyle adottò il nom de plume di Stendhal fu Rome, Naples et Florence en 1817, pamphlet da cui nacque L’Italia nel 1818 e che gli costò l’esilio da Milano poiché gli austriaci mal tollerarono alcuni commenti poco lusinghieri.
L’Italia fu per Stendhal croce e delizia: struggente è l’ultima memoria del libro, in cui racconta di aver assistito a una festa patronale a Recco, col sottofondo di “fucilate e mortaretti, sparati in onore della vergine da questi abitanti, avari e ladri”. Lì, in riva al mare, rimpiange “di non essere nato in Italia” e ammira la “felice ignoranza” dei suoi abitanti: “Per loro la storia non è che le date dell’avvento e della morte dei papi e dei re; essi non hanno avuto la sventura di innamorarsi del genere umano.
Credono fermamente che tra cent’anni tutto sarà come cent’anni fa”. Facciamo anche duecent’anni.