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 2016  aprile 15 Venerdì calendario

Il boom delle modelle virtuali, desiderabili e desiderate perché disumane (e poi costano meno, sono sempre in forma, non invecchiano, non conoscono divismi...)

Grandi occhi azzurri, haircut rosa pallido, gambe lunghissime e curve generose. Segni particolari: virtuale. È Lightning, eroina del videogame Final Fantasy, la protagonista dell’ultima campagna Louis Vuitton. Icona perfetta per “incarnare” l’immaginario, anche di stile, ma, soprattutto, come ha dimostrato la maison, per fare concorrenza alle top model in carne e ossa. E vincere. Sì, perché Lightning è bella, bellissima, anzi senza difetti, come impongono i canoni tradizionali e, più ancora, come dettano i trend contemporanei. «È l’avatar perfetto di una donna-eroina globale – dice Nicolas Ghesquière, direttore artistico Collezioni donna di Louis Vuitton – in un mondo in cui i social network e la comunicazione sono intrecciati in modo indissolubile alle nostre vite». Insomma, è l’unica modella in grado di raccontare una società che non rinnega il materialismo, ma nega il concetto classico di materia alla ricerca di una nuova concezione – e percezione – della bellezza.
PRECEDENTI
Nella sua straordinarietà, però, non è un’eccezione, ma il simbolo di una “moda”. Marc Jacobs, nel 2003, ha conquistato flash e sguardi, portando sul catwalk una versione olografica di Kate Moss. Prada, nel 2007, ha firmato gli abiti di Deunan Knute, combattente del film animato “Appleseed Ex Machina”. Coccinelle, per alcuni anni, ha usato la virtuale Mabelle come web-testimonial. Marc Jacobs, nel 2013, ha vestito Hatsune Miku, popstar olografica, assediata dai fan in live e performance. Renzo Rosso, nello stesso anno, sosteneva utilità e fascino degli avatar. Nel 2014 a fare ricorso alla tecnologia olografica 3d è stato il brand Freddy, che, sulla passerella, ha alternato modelle reali e virtuali. «Il riferimento archeologico – dice il sociologo Guerino Nuccio Bovalino, ricercatore Ceaq, Centre d’Études sur l’Actuel et le Quotidien – è l’uso che fu fatto dei tratti di Angelina Jolie per creare il videogioco di Lara Croft».
L’eroina di Tomb Raider ha aperto le porte di una sexy-virtualità concretamente desiderabile, che ha sedotto pubblico e designer. «Dal freddo corpo di un manichino, alla carne umana che indossa l’abito, si è passati all’icona virtuale – prosegue – Essa, a differenza delle modelle reali, incarna un immaginario che non è messo a rischio da eventuali cadute di stile nella vita quotidiana. Ha un suo paradigma esistenziale immutabile. Il suo contesto potrebbe essere addirittura migliorato, inserendo nella declinazione del racconto virtuale nuovi elementi utili a entrare in sintonia con l’attualità».
La spettacolarizzazione di sfilate e campagne cede così il passo a realtà alternative, adattabili a esigenze e fantasie. La bellezza, per quanto da capogiro, è comunque perfettibile, l’ideale dell’uomo batte presuntuosamente la natura e il fashion costruisce un mondo da favola di cui sognarsi regine. Anche in carne e ossa.
PARADOSSI
Benetton, per la sua campagna, usa modelle che non esistono, unendo gli elementi di più etnie per creare un volto iconico. È una didascalia a spiegare la virtualità della top. A mostrarsi una donna apparentemente vera. E, sui web-cataloghi, apparivano “concrete” pure le prime cyber-top di H&M e Vente-Privée, che nel 2011 animarono rete e dibattito. Il digi-fashion consente al pubblico di adattare le modelle al proprio aspetto, ma anche di cambiare colore di capi e accessori per “provare” possibili acquisti. Il sistema piace, tanto da alimentare un business di top virtuali, con agenzie dedicate. Il successo arriva. Basti pensare a Babelle, creazione dell’artista Roland Maas, che l’ha realizzata nel 2002 per riflettere sulla bellezza, e nel 2006 l’ha “vista” rilasciare interviste come una star, contesa da designer desiderosi di vestirla e mostrare le loro collezioni al mondo.
Le modelle virtuali costano meno, sono sempre in forma, non invecchiano, non conoscono divismi. Sono desiderabili e desiderate perché dis-umane. «Un esperimento condotto in Germania su osservatori chiamati a indicare le preferenze su un book di donne vere e create al pc ha visto vincere quelle virtuali – racconta Giuseppe Polipo, presidente Associazione Italiana Psicologia Estetica – Svincolare la percezione della bellezza dall’incontro emozionale può avere effetti disastrosi sui giovani, portati a mostrarsi con immagini fasulle e ritoccate. Le figure virtuali non sono buone, né cattive – conclude – il gioco può essere utile, ma attenti a non cadere nell’autoreferenzialità».