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 2016  aprile 15 Venerdì calendario

Storia del fruttivendolo multato per aver scritto «fagiolini siciliani» invece di «fagiolini italiani»

I fagiolini siciliani costano cari al fruttivendolo Gianni, un’istituzione al mercato di Piazza Vittoria a Trento. Settecentosettanta euro di multa: a tanto ammonta la sanzione comminata al verduraio trentino, «colpevole» di aver omesso dall’etichetta la parola magica: «origine Italia», come prescritto dalle norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari. Ci sarebbe da ridere per la stupidità che guida l’azione dei nostri apparati burocratici. Sennonché Giovanni Endrizzi, di mestiere verduraio a Trento da ventiquattro anni, quei soldi rischia di sborsarli davvero.
La vicenda inizia circa quattro mesi fa quando tra i banchi di Piazza Vittoria si presentano gli ispettori di Agecontrol, l’agenzia del Ministero della politiche agricole, incaricata di effettuare i controlli di conformità alle norme su frutta e verdura fresche. Giunti al banco di Endrizzi i controllori, come riferisce il quotidiano online Trentino, contestano l’etichetta delle tegoline che riporta la scritta «fagiolini siciliani» e non «Italia». In pratica scrivere sul cartellino che la verdura proviene dalla Sicilia non è sufficiente, come se l’isola più grande del Mediterraneo non godesse soltanto dello statuto speciale. Ma fosse del tutto un altro Paese. Alle rimostranze di Endrizzi sulla inequivocabilità dell’origine tricolore dei fagiolini, gli ispettori rispondono che debba essere invece presa in considerazione l’ipotesi che fra i frequentatori del mercato ci possa pure essere qualcuno che non sappia dove si trovi la Sicilia.
A quattro mesi di distanza al verduraio arriva una missiva con l’ammontare della multa: 770 euro. E a scanso di equivoci gli zelanti controllori ministeriali specificano nella motivazione che il commerciante «ometteva l’indicazione del Paese di origine, Italia, sul cartello apposto accanto a una partita di fagiolini freschi esitata per la vendita al dettaglio, ove veniva riportata la dicitura: siciliani». Di solito si dice che la legge non contempla l’ignoranza, in questo caso par vero il contrario: proprio a beneficio di consumatori così ignoranti in geografia da non sapere a quale Paese appartenga la Sicilia, il ministero impone di specificare l’origine nazionale di frutta e verdura. «Capisco se avessi tentato di truffare», ha dichiarato al giornale online il fruttivendolo, «magari scrivendo una provenienza falsa, ma in questo caso non c’è alcuna intenzione di dichiarare una cosa non vera. Penso che in questi controlli ci voglia il buon senso e siano ben altre le truffe e le contraffazioni».
In attesa di capire cosa deciderà il giudice di pace a cui si è rivolto Endrizzi, non possiamo che dargli ragione. Negli alimentari, al di fuori dei prodotti a Denominazione d’origine protetta, le Dop, c’è poco di identificabile come italiano e che sia realmente tale. Formaggi con tanto di nastrini e coccarde tricolori fatti con latte tedesco, prosciutti dai nomi italianissimi ottenuti a partire da cosce di maiale olandesi, pasta contenente grano ucraino o addirittura canadese.
La confusione sulla reale provenienza di quel che gli italiani portano a tavola ogni giorno è massima. Senza contare i 70 miliardi di euro di falso made in Italy venduto in giro per il mondo, l’italian sounding, i nostri carrelli della spesa straboccano di cibi italiani soltanto nel nome o nella marca. Eppure i consumatori non hanno modo di accorgersene, grazie ai regolamenti europei sull’etichettatura degli alimenti che privilegiano l’opacità. In ossequio ai desiderata delle lobby della grande industria alimentare.
Alla fine però, anziché i veri taroccatori, le multe le prende chi, forse per eccesso di trasparenza, non si ferma al Paese nella dichiarazione dell’origine, ma cita la regione. La macchina del gusto made in Ue (e di riflesso made in Italy) funziona con queste regole demenziali.