La Stampa, 15 aprile 2016
Indagine sulla crisi del Barcellona
A fine marzo era lo squadrone degli invincibili. A metà aprile un materasso che prima ha rimesso in palio una Liga già vinta e poi ha salutato la Champions. Che cosa è successo in queste due settimane al Barcellona? Com’è possibile che la squadra più forte del mondo perda, con pieno demerito, tre partite su quattro e ne vinca una soltanto perché il centravanti avversario, Torres, si fa scioccamente espellere sul più bello? E ancora, al di là dei risultati, come fa un’orchestra abituata alla perfezione del suono cominciare a stonare come una banda di paese? Tre le possibili risposte.
Insolita insicurezza
Chi troppo in alto sal cade sovente, precipitevolissimevolmente. Proverbio spicciolo, banale solo all’apparenza. Più ci si abitua a vincere per manifesta superiorità, meno si è attrezzati mentalmente per affrontare difficoltà inattese. E la prima sconfitta genera un’insicurezza con cui non si è più avvezzi a fare i conti.
Quei 12 km di differenza
Non che prima avesse nella corsa la principale delle sue caratteristiche, anche perché non serviva. Ma l’altra sera l’Atletico ha percorso 114 chilometri contro i 102 del Barcellona. Che li ha camminati. L’unico a non aver smarrito il cambio di passo è Jordi Alba. L’altro che continua a correre, ma senza costrutto, è Dani Alves. Ce ne sarebbe un terzo, tra un cazzotto e l’altro, che è Suarez: ma nessuno riesce più a cogliere i suoi movimenti per servirgli un pallone decente.
La dipendenza da Leo
Si è fermato Messi. Dalla sera alla mattina, senza una ragione apparente, sulla soglia dei 500 gol. Ha smarrito all’improvviso il suo bagaglio da fenomeno, le sue accelerazioni impossibili, la sua capacità infilarsi in quei varchi che solo lui riesce a vedere. Nel Barcellona i grandi giocatori sono tanti, ma il fenomeno è lui. E in questi anni, le rare volte che serviva, da lui arrivava la magia che cambiava le carte in tavola.
Celebrazioni affrettate
Checchè ne dicano i giornali catalani, gli arbitraggi non c’entrano. Semmai hanno tenuto in vita il Barça sino all’ultima nefandezza di Rizzoli, quella sì, che avrebbe significato il rigore dei supplementari. Non della qualificazione. Ma all’andata andava espulso Suarez, prima della rimonta firmata dai suoi due gol, e al ritorno c’era rigore di Piquè ed espulsione finale per Iniesta. E insomma non se ne esce. A meno di non disturbare la cabala, il dio del pallone che un giorno decide che è troppo e a quel punto si ribella. Il 29 marzo è uscito in pompa magna un film documentario sulla storia del Barcellona. Un polpettone ricco di splendide immagini ma senza capo né coda. Un omaggio trionfale alla squadra più forte del mondo che a me, dopo averlo visto, ha subito richiamato alla mente la passeggiata benedicente di Dino Viola sulla pista dell’Olimpico, qualche minuto prima di Roma-Lecce 2-3, giusto trent’anni fa. E l’analoga prodezza di Cecchi Gori qualche anno più tardi, sempre prima della partita, quando il Milan di Van Basten si fermò soltanto dopo averne fatti 7 alla povera Viola.
Di sicuro, con il Barcellona a casa crescono a dismisura i rimpianti della Juve. Anche lasciando da parte il peccato originale di Siviglia, la battaglia col Bayern era praticamente vinta. E così come oggi favoriti sono i tedeschi, lo sarebbe stata la Juventus. Perché il City lo aveva già sistemato nel girone, il Real un anno fa e oggi è ancor più fragile in difesa, e anche con questo splendido Atletico se la sarebbe giocata tranquillamente alla pari.