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 2016  aprile 15 Venerdì calendario

È Stephen Curry l’erede di Koby Bryant? Due campioni a confronto

Segnando 60 punti e il canestro dell’ultima vittoria per i suoi Lakers, Kobe Bryant ha lasciato l’altra notte i campi da basket, in un’ondata di commozione planetaria. È stato fra i più grandi della storia del gioco, che ora dovrà fare pochi chilometri, sulle strade della stessa California, per trovargli un erede. Nelle stesse ore in cui il Black Mamba fermava il mondo per scendere, Stephen Curry portava i Golden State Warriors alla vittoria numero 73 della stagione regolare, come a nessun’altra squadra Nba era riuscito, Bulls di Jordan compresi. Il bambino d’oro, che è già oltre la candidatura a prossima icona del basket, succedendo a Bryant, avvierà domani la rincorsa al suo secondo titolo, e avrà poi una vita davanti per salire ancora: i dieci anni meno di Kobe sono almeno altrettante stagioni di caccia.
IL RUOLO
Stephen Curry, 191 centimetri per 86 chili, è un play guardia. Fa gioco e soprattutto lo finalizza. Specialista nelle triple, è già oltre le 400 nella stagione. Nessuno ne aveva mai fatte tante. Da 133 gare di fila ne segna almeno una.
Kobe Bryant, 198 centimetri per 96 chili, è una guardia. Incursore e tiratore, conta quasi 40.000 punti segnati in 20 stagioni Nba.
IL PROFILO TECNICO
Curry è un tiratore che sa crearsi un tiro dal palleggio e anche prenderlo liberandosi senza palla, soprattutto in transizione, ossia passando dalla difesa all’attacco. Va spostando all’indietro il raggio utile per colpire, essendo ormai affidabile anche da nove metri, ossia da dove altri tentano solo impiccati, perché sta finendo il tempo. Infine, ha un brevissimo tempo di rilascio della palla, ossia prende e spara quasi senza caricamento. Segna anche in entrata, bilanciando con agilità ed equilibrio la relativa mancanza di potenza. In difesa fa la sua parte, in un sistema efficace e complesso che ha altri punti di forza. Ruba palloni con le sue mani veloci, legge bene le linee di passaggio, anche se di rado tocca a lui marcare il migliore degli avversari.
Bryant è stato un attaccante completo e fantasioso. Fortissimo fisicamente, poteva entrare e andare al ferro a schiacciare o anche tirare dalla distanza. Triple che per altri parevano insensate, prese fuori equilibrio, lo premiavano con il canestro. Sotto pressione, la sua efficacia diventava ancor più letale. Volendo, diventava inoltre il miglior difensore dei suoi soprattutto nei finali di partita, scegliendo per sé l’avversario più forte.
IL CARATTERE
Curry è un leader silenzioso, spesso sorridente, il ragazzo della porta accanto che non alza la voce e sfoga la felicità dopo il gol con balletti, fra il tribale e il metropolitano. La sfida che dovrà sostenere, soprattutto mentale, è sulla durata del proprio dominio, da porre al riparo da usure fisiche e stress psicologici. Gli altri fenomeni hanno misurato i successi a decadi, lui è appena partito.
Bryant è stato per anni, ai Lakers, un leader di inappagata ferocia agonistica, ma anche di personalità ingombrante. Chiuse l’epoca della prima tripletta, firmata insieme a Shaquille O’Neal, ponendo al club l’alternativa fra sé e l’omone: vinse e fu lasciato padrone della squadra. Esigente con se stesso e coi compagni, ma talvolta pure generoso e affettuoso coi gregari, resta il tenore egocentrico che dedicò la carriera a inseguire Jordan e il suo mito, ritenendosi in cuor suo perfino superiore.
LA CARRIERA
Classe ’88, figlio di un giocatore Nba, fratello di un altro, alla sua settima stagione fra i pro, Curry può vincere il secondo titolo, dopo quello 2015. Conta inoltre, con la Nazionale Usa, due medaglie d’oro ai Mondiali. Gli manca quella olimpica e sarà a Rio per puntarci. Sbocciato nelle ultime due stagioni, era arrivato in California nel 2009 come scelta numero sette, senza aspettative smodate. Il fisico mingherlino motivava sempre qualche diffidenza e oscure predizioni che sarebbe presto andato a sbattere. I Warriors avevano inoltre troppi giocatori declinanti per cambiar loro faccia in fretta. Ci voleva non solo Curry, ma la generazione cresciuta con lui, dal “gemello” Klay Thompson in giù per fiorire poco per volta e installarsi ora fra i top club della Lega.
Classe ’78, figlio di un giocatore (Joe, a lungo in Italia), Bryant conta venti stagioni Nba, e cinque titoli (2000, ’01, ’02, ’09, ’10) oltre a due ori olimpici. Voleva i Lakers e finì ai Lakers, a soli 18 anni, saltato il college, anche se fu scelto, col numero 13, da Charlotte. C’era già l’accordo per portarlo a Los Angeles in cambio di Divac. Ha avuto solo quella maglia, altre non ne avrà. «Tornerò in Italia – ha detto alla conferenza d’addio – per aiutare i giovani, non per giocare».

I DUALISMI

Curry ha in Lebron James, di quattro anni più vecchio, e forte di 13 stagioni Nba, l’antagonista vero. E se lo sport prospera di dualismi, questo ha pure i fortunati profili di un’astrale diversità fisica. Il ragazzo della porta accanto, il fisico normale, cui il talento fa dono dell’eccezionalità contro l’uomo bionico che pare costruito in laboratorio per mettere una montagna di muscoli al servizio di una superiorità anche tecnica. Curry contro Lebron è, all’alba dei playoff, la più pronosticata delle finali, già vista un anno fa. L’epica del dualismo ne uscirebbe sfolgorante.
Entrando nella Nba nel ’96, Kobe Bryant vi incrocia un Michael Jordan ancora padrone (l’ultimo dei suoi titoli è del ’98), dopodiché ne prende l’eredità come figura dominante della Lega. Anche il decennio di Kobe brilla a lungo di luce solitaria (1° titolo nel 2000, ultimo nel 2010), senza un contraltare vero che riporti al dualismo più celebre e dorato della Nba (Larry Bird e Magic Johnson). Incrocia nel finale di carriera l’ascesa di Lebron (titoli nel ’12 e ’13), quando lui è già al distacco.