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 2016  aprile 15 Venerdì calendario

«Quando parlo della mia bellezza vorrei precisare che ne parlo come se fosse una cosa, una borsetta, un foulard che porto con me». Le memorie di Ilaria Occhini, a scanso di equivoci sulla vanità

«Quando parlo con tanta disinvoltura della mia bellezza vorrei precisare che ne parlo come se fosse una cosa, una borsetta, un foulard che porto con me, non ne parlo con nessun vanto». La chiave del lieve libro di memorie che Ilaria Occhini ha scritto in un delicato momento del suo ricchissimo percorso esistenziale ( La bellezza quotidiana. Una vita senza trucco, Rizzoli) è in questa puntualizzazione seminata lì, a scanso di equivoci sulla vanità, nelle pagine che ricostruiscono un tessuto affettivo familiare nella Napoli del 1962. Non c’è calcolo, né un bluff da poker.
È la verità personale di una delle più luminose bellezze del secondo Novecento italiano: sguardo magnetico, ovale perfetto, classe inarrivabile, forte presenza scenica. Ha appena superato magnificamente l’ottantina e ha deciso di dire addio – ecco il delicato momento esistenziale – al terreno in cui sono affondate le sue radici professionali (il miglior teatro italiano del Dopoguerra, la tv con i grandi sceneggiati di una Rai tuttora rimpianta, il cinema con le ultime belle soddisfazioni). Dice, la signora Occhini, che non è stata una scelta facile: «Ho scelto di chiudere, lo ammetto, con fatica e dolore. Ma i ruoli che mi vengono proposti non mi corrispondono più, non mi interessano. Basta. Mentre imboccavo questa strada, m’è arrivata la proposta della Rizzoli di scrivere qualcosa su di me...».
Quel «qualcosa» fa il paio col distacco verso la sua bellezza. «Qualcosa», per esempio, è una aristocratica e intellettuale famiglia di origine con un nonno materno di nome Giovanni Papini, padre di mamma Gioconda, a sua volta magnifica donna morta molto giovane. Nel salotto del nonno, si legge, «venivano in tanti: Prezzolini, Cicognani, Pancrazi, Bargellini, Lisi, Luzi, Spadolini, Primo Conti, Amendola...». Mentre Ilaria Occhini sfoglia il suo libro nell’attico romano di Palazzo Pamphilj al Collegio Romano, inondato da una luce che arriva dal Gianicolo e da Monte Mario, suo marito Raffaele La Capria, grande scrittore (premio Strega nel 1961 con Ferito a morte, qui seduto nel ruolo di sostenitore dell’impresa letteraria della moglie) la guarda dolcemente. Il tempo non ha cancellato una ferita remota, gli attacchi politici al nonno Papini appena dopo la sua morte. La nipote oggi ottantenne ancora reagisce con forza: «Lo definirono fascista perché aveva accettato la nomina ad Accademico d’Italia. Ma lui viveva “in pace col fascismo”, che era tutt’altra cosa, e conduceva la sua vita da letterato. Quando morì ci fu un voltafaccia generale, per me amarissimo».
E poi «qualcosa» vuol dire la cultura dell’Italia del Dopoguerra. Nelle pagine sfilano davvero tutti, giovani e pieni di energia, qui elencati in ordine sparso: Luchino Visconti, Luciano Emmer, Robert Bresson, un primo amore di nome Valerio Zurlini, Renato Guttuso e Antonello Trombadori, Alberto Moravia a Dacia Maraini, Monica Vitti, Domenico Modugno, Marcello Mastroianni, Virna Lisi ma anche Giovanni Urbani e Kiki Brandolini, poi il grande teatro con Luca Ronconi, Gian Maria Volontè, Mario Missiroli, Aroldo Tieri, Gabriele Lavia, un maestro come Orazio Costa (che le insegna brutalmente come usare la voce in scena), Antonio Giulio Majano che nel 1957 le affida il ruolo di Jane Eyre e ne fa la prima diva televisiva. Nel libro si legge: «Capii che “fan” deriva da fanatico, e allora, mentre in televisione veniva trasmesso lo sceneggiato, poteva capitare addirittura che qualcuno, riconoscendomi per la strada, mi si inginocchiasse davanti. Mi vergognavo, ma scoprivo anche, stranamente, che tutto questo non scuoteva la mia tranquillità interiore, lo accettavo quasi come se mi fosse dovuto».
La prosa è sobria, fluida. È come se l’attrice Ilaria Occhini avesse sempre scritto. Da dove viene questo stile immediato? Silenzio. Lo sguardo cerca quello del marito: «Davvero non lo so... Tu che ne pensi, Dudù?». Ecco un raro caso di critica letteraria in diretta, firmata da un marito scrittore: «Ilaria è una donna di carattere, con molteplici interessi. E poi c’è la tradizione familiare, il nonno Papini, suo padre Barna Occhini che fu un grande critico d’arte. Ilaria si è impregnata di tutto questo, ecco perché scrive con facilità». Un altro sorriso: «È un suo dono innato, quando le sottopongo per prima un mio scritto, capisce subito per istinto dove sia l’aggettivo sbagliato, il vocabolo inesatto, e ha sempre ragione». L’elenco degli elogi continua, lei guarda altrove: «Ho sempre detto che mi sarebbe comunque piaciuta come persona, indipendentemente dal legame coniugale. Per esempio ha una particolarissima empatia per tutto ciò che è stato creato, per le piante, gli animali, è sempre stata capace di intuire il pensiero dei nostri cani».
Domanda inevitabile alla signora: un nonno così importante, un padre assai significativo, un marito famoso, considerato un classico della letteratura contemporanea, non le pesano tutte queste figure maschili? Stavolta nessuna esitazione: «Sì, forse anche troppo, spesso penso di essere come vissuta all’ombra e non da protagonista... Ma la mia vita è fatta così». Dudù interviene, stavolta ride: «La verità è che mi ha sempre trattato un po’ dall’alto in basso, senza mai farsi intimidire da niente». Il gioco complice tra i due è il frutto di 55 anni di vita comune, cominciò nel 1961. C’è una figlia, Alexandra, verso di lei la madre ha antichi sensi di colpa: «Partivo per le tournée, poi tornavo e lei abbracciandomi diceva “Ho mangiato tutto! Ho mangiato tutto!”, pensava me ne fossi andata per punirla, piccinina... Adesso è una donna, piena di idee, ma ha una vita non facile». Poi ci sono tante case insieme, gli animali, molti amici, le serate, la terrazza che sembra una rampa di lancio verso il massimo barocco romano. Se dovesse scegliere lo spettacolo teatrale della sua vita? «Sicuramente Il gabbiano di Cechov con la regia di Orazio Costa, nel 1969, ero Nina». E l’applauso che le resterà nel cuore? «Quello ricevuto nel gennaio 2011 al Festival di Bari per il mio ruolo in Mine vaganti di Ozpetek, me lo consegnò Ettore Scola al Petruzzelli... Una lunga standing ovation. Ecco, sì, gli applausi mi mancheranno». Gli occhi si velano, Dudù le sorride ancora. Dal terrazzo, in un colpo d’occhio, ecco lì uno accanto all’altro San Pietro, il Pantheon, il Borromini di sant’Ivo alla Sapienza. È la bellezza quotidiana di casa La Capria-Occhini, piena di libri e di luce.