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 2016  aprile 15 Venerdì calendario

L’addio con sessanta punti di Kobe Bryant

«Che cos’altro posso dire?» si è domandato Kobe Bryant davanti al delirio dello Staples Center e dei tifosi dei Los Angeles Lakers?«Mamba out». 60 punti segnati agli Utah Jazz nella partita di fine carriera, 2 parole perfette per sintetizzare una carriera e uno stato d’animo. Mamba, il serpente dal morso fulmineo capace di spostarsi a 20 km orari, è stato il suo soprannome; «out» ingloba invece vari concetti, dal senso profondo della fine agonistica alla ricerca di un luogo futuro per la vita, dal momento che Kobe non sarà più «in», almeno in una partita ufficiale, su un parquet di basket.
Mamba-Bryant è fuori. Se ne va. Trentasette anni all’anagrafe, venti di carriera in esclusiva (per i Lakers), una valanga di punti, di minuti giocati, di successi, di pareri controversi, di accostamenti impossibili con altre divinità della pallacanestro. Si è stupito, Kobe, di come il tempo «sia passato in fretta». Poi ha promesso di non smettere di amare i tifosi e infine ha scherzato sul suo essere spesso un accentratore del gioco (viziaccio o pregio sublime? Dibattito eterno): «Mi hanno sempre accusato che non passavo la palla; invece stasera mi dicevano non passarla». Bryant ha chiuso la sua storia cestistica con due tiri liberi. Come Michael Jordan, l’inevitabile termine di paragone – che cosa li accomuna? Probabilmente la disponibilità a vendere l’anima al diavolo in cambio di un ciuff a fil di sirena —, anche se i due si sono incrociati solo brevemente e mai in una finale, il capitolo che manca a questa favola.
Jordan però si ritirò due volte, perché dopo il primo passo indietro si rimise canotta e scarpette: il secondo congedo cannibalizzò il primo e affievolì il suo stesso impatto mediatico. E anche l’addio di un altro fenomeno, quel Magic Johnson che mercoledì ha rivolto frasi emozionate a Kobe («Sei il miglior Laker di sempre: non ci sarà un altro Bryant»), fu annacquato: la storia della sieropositività piazzò un macigno ineludibile. Così il saluto dell’ex bambino magro e riccioluto, cresciuto in Italia al seguito di papà Joe, è riconducibile più al giorno in cui Kareem Abdul-Jabbar chiuse, a 44 anni, la sua fabbrica di rimbalzi e canestri: era il 1989 e il Forum di Inglewood dedicò a KAJ una standing ovation di 10 minuti; Kobe è invece quasi riuscito a oscurare le 73 vittorie-record dei Golden State Warriors, impresa che andava in scena a Oakland, 600 km a nord di Los Angeles.
Cinque «scudetti» e un rimpianto («Avrei voluto chiudere ancora con un titolo»), Kobe è l’anello di congiunzione tra il basket di Jordan e quello di LeBron James e degli altri assi di oggi. Non va giudicato, va ricordato nelle acrobazie uniche, nei numeri (guadagni milionari, certo, ma anche 16 modelli di scarpe dedicate) e nel sapersi far detestare, cosa della quale era consapevole come prova la simpatica clip ideata dalla Nike nella quale dirige il coro degli improperi al suo indirizzo. «Mamba out». Chissà se il suo avatar nel videogame «Nba live», dal successo planetario, resterà in campo.