Corriere della Sera, 15 aprile 2016
Referendum, perché andare a votare e perché no
Michele Ainis – È meglio votare, niente espedientiE tu, ci andrai a votare? In ogni referendum la domanda che martella gli italiani è sempre questa: non più come votare, bensì piuttosto se votare, se aggiungersi al popolo del quorum.Succederà pure domenica, nella consultazione sulle trivelle in mare; e alla chiusura dei seggi conosceremo immediatamente il risultato, perché ormai conta l’affluenza, non già la preferenza.Diciamolo: è una deriva ingannevole, sleale.
Approfitta della quota d’astensionismo fisiologico per sabotare il referendum, sommando agli indifferenti i contrari, mentre i favorevoli non hanno modo di moltiplicare il «sì», mica possono votare per due volte. Dunque l’appello all’astensione è un espediente, se non proprio un trucco, come affermò Norberto Bobbio nel 1990.
Un tempo, durante la gioventù della Repubblica, la sfida si giocava in campo aperto. Nel primo referendum della nostra storia – quello sul divorzio, nel 1974 — le truppe di Fanfani e di Pannella si contarono alle urne, non davanti alla tv; e infatti andò a votare l’87,7% degli elettori. Percentuali intorno all’80% segnarono altre consultazioni degli anni Settanta e Ottanta: il finanziamento ai partiti, l’aborto, l’ergastolo, la scala mobile. E in molteplici occasioni i referendum vennero respinti con un voto — libero, esplicito, diretto.
Dopo di che s’ingrossa la slavina. Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno invitato gli elettori a disertare le cabine elettorali, in questa o in quell’altra occasione. Talvolta l’ha fatto anche la Chiesa: celebre l’appello del cardinal Ruini, al referendum del 2005 sulla fecondazione assistita. Non meno celebre l’«andate al mare» di Craxi, al referendum del 1991 sulla preferenza unica. Nel primo caso l’appello fu raccolto, nel secondo no. Ma al di là dei suoi esiti alterni, questa strategia un risultato complessivo l’ha prodotto, depotenziando il referendum. Tanto che la riforma costituzionale corregge al ribasso il quorum (se il referendum è sostenuto da 800 mila firme), anche per ostacolare la reiterazione del giochino astensionista.
Ecco perché si rivelano fallaci le critiche al presidente della Consulta, Paolo Grossi. Ha detto: il voto è un dovere, esprime la pienezza della cittadinanza. E che altro avrebbe dovuto dire? Che il referendum è uno spreco di tempo, che l’elettore virtuoso coincide con il non elettore, che le sole urne democratiche sono le urne cinerarie? I guardiani della Costituzione non possono ignorare le sue norme più pregnanti: il voto è un «dovere civico», recita l’articolo 48. E nei doveri costituzionali risuona il timbro etico della nostra Carta, vi si riflette la lezione di Mazzini. Difatti il presidente Mattarella ha già fatto sapere che lui, sì, andrà a votare.
Poi, certo, il voto è anche un diritto. E ciascuno resta libero d’esercitare o meno i diritti che ha ricevuto in sorte. Tanto più quando s’annunzia un referendum, la cui validità è legata al quorum. Ma questo vale per i cittadini, non per quanti abbiano responsabilità istituzionali. Loro sono come i professori durante una lezione: non possono dire tutto ciò che gli passa per la testa, perché hanno un ascendente sugli allievi, e non devono mai usarlo per condizionarne le opinioni. Come scrisse Max Weber, la cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti. Anche perché i profeti dell’astensionismo, nel nostro ordinamento, rischiano perfino la galera, secondo l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera, cui rinvia la legge che disciplina i referendum. Norme eccessive, di cui faremmo meglio a sbarazzarci. Ma c’è anche un equivoco da cui dobbiamo liberarci: sul piano dell’etica costituzionale, se non anche sul piano del diritto, l’astensione ai referendum è lecita soltanto quando l’elettore giudichi il quesito inconsistente, irrilevante. Altrimenti è un sotterfugio.
Angelo Panebianco – Si può non votare, è un mio diritto
Evitiamo le ipocrisie: il risultato del referendum sulle trivelle di domenica dipende solo dal quorum. Se il quorum non ci sarà, fine dei giochi. Se ci sarà, i «sì» (stra)vinceranno. La ragione è semplice: tutti i fautori del «sì» voteranno, i fautori del «no», invece, si divideranno fra votanti e astenuti.In queste condizioni, chiunque sia contrario a fermare le trivelle ha, secondo chi scrive, il diritto di astenersi.
La controprova è che la schiacciante maggioranza dei nemici dell’astensione è favorevole al «sì». Se si considera poi che molti fautori del «sì» sono disinteressati al quesito (come ha osservato Pierluigi Battista sul Corriere di ieri) ma vogliono solo prendersela con il governo, è tanto più saggio «chiamarsi fuori», astenersi. È questa un’opinione, come si vede, opposta a quella sostenuta pochi giorni fa dal presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi.
Affrontiamo il problema generale: votare è un diritto o un dovere? Negli stati totalitari (dove si vota per il partito unico) votare è un dovere e ci sono sanzioni per chi si astiene. Nelle democrazie, invece è (o dovrebbe essere: talvolta anche gli ordinamenti democratici violano questo principio) solo un diritto. Vero è che nel nostro ordinamento il voto è trattato, con ambiguità, come un diritto-dovere. Ma si tratta di un’eredità dell’epoca autoritaria. Tanto è vero che non ci sono (più) sanzioni. Allo stesso modo erano eredità di quell’epoca le altissime percentuali di voto che caratterizzavano le elezioni quando c’erano i partiti di massa. Quelle percentuali, oltre che dalla capacità di mobilitazione di quei partiti, dipendevano dalla memoria storica: erano un’impronta lasciata dall’autoritarismo del passato.
Certo, poi, ciascuno deve essere libero di pensarla come gli pare. Se lo credono giusto le persone hanno il diritto di ritenere che votare sia sempre dovere del buon cittadino. Ciò attiene però solo alle libere scelte deontologiche dei singoli. C’è invece un importante risvolto pratico che riguarda il votare o l’astenersi. Sia in elezioni che in referendum privi di quorum chi si astiene abdica al proprio potere di influenzare gli esiti, lascia che la decisione sia nelle mani di altri, dei votanti.
Diverso è il caso dei referendum con quorum. Con il quorum le possibilità sono tre: «sì», «no», astensione. Chi non vuole che l’astensione sia una scelta al pari delle altre due deve chiedere l’abolizione del quorum: resterebbero in campo solo i «sì» e i «no».
Altre volte, in passato, ci sono stati appelli per l’astensione in occasione di referendum. Ma allora i presidenti della Corte costituzionale non aprirono bocca. Che cosa è cambiato? È cambiata la posizione della Corte, essa sembra avere scelto un ruolo molto più attivo e intrusivo nelle vicende politiche. Ha cominciato con una sentenza (si è trattato, non solo a parere di chi scrive, di un’invasione di campo) sulla legge elettorale. Ha poi continuato con una decisione sul blocco degli stipendi degli statali che avrebbe potuto incidere pesantemente sulla politica economica e di bilancio. Adesso prosegue con le dichiarazioni del suo presidente sul referendum di domenica.
Si capisce quale sia la causa di questo cambiamento. Per anni, abbiamo avuto una politica rappresentativa debole e delegittimata. Ciò ha consentito a vari corpi e istituzioni di conquistare spazi a scapito della politica. Ma c’è un ma, al quale non dovrebbero essere insensibili i giudici costituzionali. Il prestigio della Corte è alto se essa è percepita come un’istituzione che sta al di fuori della lotta politica. Se quella percezione cambia, la Corte diventa attaccabile come chiunque altro. E, alla fine, il prestigio si indebolisce assai. Non conviene alle istituzioni e non fa bene alla democrazia.