la Repubblica, 14 aprile 2016
C’era una volta il filmino Super 8. E c’è ancora
Un medium dimenticato da tutti, perfino dalla nostalgia. Ma proprio questo fa la fortuna del “filmino”, che oggi è pronto a ricominciare da zero, a stupire come la prima volta, strepitosa innovazione analogica in questa annoiata era digitale.
Il cinema da salotto entrò nelle case degli italiani agli albori del boom economico: il proiettore da montare sul tavolo da pranzo, davanti alla parete bianca (stacca il quadro dal chiodo! chiudi le persiane!) era l’elettrodomestico dell’immaginario familiare, dava vita e movimento a fotografie dell’album troppo immobili per quegli anni dinamici. Ma il cinema domestico ha patito per primo la legge dell’obsolescenza dell’interfaccia tecnologica: insomma il proiettore di casa a un certo punto si rompeva, quand’era già arrivata l’era del video, i pezzi di ricambio non c’erano più, e le mini-pizze di pellicola rimanevano nei cassetti degli italiani, inerti e afasiche. Mentre le fotografie dei nonni col bordo frastagliato diventavano vintage, le bobine di celluloide diventavano semplice cianfrusaglia. Così, quando nel 2002 a Bologna un gruppo di cinefili intelligenti cominciò a raccoglierle in un archivio, Home Movies, promettendo in cambio un riversamento in dvd, furono sommersi da filmati di spiagge e prime comunioni. Ora ne custodiscono oltre cinquemila ore, c’è dentro la memoria tremula e sfarfallante della famiglia italiana letteralmente in movimento verso il benessere.
Bene, la notizia è che, mentre i padri si comprano la GoPro, i figli cominciano a girare su pellicola. Il 5 gennaio, sorprendendo chi la dava per agonizzante, la Kodak ha lanciato sul mercato un modello tecnologico di cinepresa per film Super8 (formato più economico dell’8mm, lanciato nel 1965). Il primo aprile poi è resuscitato ufficialmente un marchio blasonato della fotografia italiana: la Film Ferrania, una startup che vanta un’eredità secolare, rianimata da due giovani imprenditori toscani, ricomincerà fra pochi mesi a sfornare, oltre a rullini fotografici, anche pellicole 8 e 16 mm. Non si tratta di operazioni nostalgiche. Il target sono gli “immigrati analogici”. Non sessantenni che ritrovano antichi amori, ma nativi digitali che scoprono per la prima volta il gusto dell’immagine alchemica, che si forma su un supporto solido, che si può toccare e guardare in controluce. Soprattutto, quelle immagini che si animano in un rumore di ali di pipistrello regalano il brivido dell’imprevisto. Succede alle immagini in movimento quel che è accaduto con le toy camera, le Lomo, le Holga, le Diana: abituati a software intelligentissimi dove è impossibile che una foto “venga male”, la pellicola ci sorprende con un’avventura nel territorio della “sbagliografia”, dell’errore felice e creativo. Un po’ moda, un po’ snobismo del downgrading, un po’ reazione all’eccesso di perfezione digitale, la resurrezione del Super8 è stata salutata con affettuoso entusiasmo da grandi registi come Steven Spielberg («mi piace che la nostra arte centenaria conservi quel certo look da pellicola») e Quentin Tarantino («ventiquattro fotogrammi al secondo attraversati dalla luce di una lampada, per me la magia del film è questo»). Pochi ricordano che gli inventori del cinematografo, i fratelli Lumière, se lo immaginavano non come la settima arte ma come un divertimento casalingo, uno dei loro primi filmati fu il sempiterno “bagnetto del bambino”. Poi venne Meliès, sparò un proiettile nell’occhio della Luna e fu tutta un’altra storia; ma il cinemino di casa, umile e servizievole costruttore di legami familiari, non ha voluto morire.