Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 14 Giovedì calendario

I discorsi di Zuckerberg sono sempre più politici. Ed è subito lobby

Washington «Sento voci piene di paura che chiedono di costruire muri, fermare l’immigrazione, creare distanza tra le persone, eliminare la libertà d’espressione, ridurre gli scambi economici». Sbagliato perché «siamo un’unica comunità globale: vogliamo dare a tutti il potere di condividere tutto con tutti». L’orazione morale di un uomo che vuole costruire ponti anziché erigere muri? Parole del Pontefice? No, stavolta non è lui: sono parole di Mark Zuckerberg, fondatore e capo di Facebook. Il quale, a differenza di papa Francesco, non prende di petto direttamente Donald Trump, anche se il candidato repubblicano è il bersaglio del suo intervento. Zuckerberg ha parlato da imprenditore alla «f8 developers», la conferenza degli sviluppatori di Facebook, ma, come hanno notato su corriere.it Martina Pennisi e Federico Cella, da tempo i suoi interventi hanno connotati sempre più politici: dalla condanna della proposta dello stesso Trump di impedire l’ingresso negli Usa ai musulmani, alla nascita della primogenita, «festeggiata» annunciando che donerà il 99 per cento del suo patrimonio alla collettività: risorse per migliorare le condizioni di vita degli uomini. Tutto molto bello a prima vista, così come è condivisibile la critica ad alcune rozze sortite del miliardario populista. Appena scavi un po’, però, scopri che le massicce donazioni arriveranno in un futuro remoto (per ora Mark darà via solo 3 dei suoi 45 miliardi) e, oltre che per l’istruzione e debellare le malattie, questi soldi finiranno a organizzazioni simili alle «SuperPAC» protagoniste nella stagione elettorale Usa, per campagne finalizzate a far avanzare l’agenda sociale di Zuckerberg. Per molti «media» americani siamo allo sbarco del fondatore di Facebook in politica. Non certo come candidato ma forse, in prospettiva, con un ruolo simile a quello giocato sul fronte conservatore da altri due miliardari: i fratelli Koch, padroni di un gruppo energetico, che hanno inciso non poco sul cambiamento di rotta del partito repubblicano, oggi più radicale, anche «allevando» i Tea Party. Niente di strano, visto che in America tutti sono liberi di influenzare la politica. Zuckerberg si è mosso da tempo in questa direzione: primo della Silicon Valley (insieme a Google) a costruire una potente «lobby» a Washington. Ma, proprio per questo, è importante capire di cosa stiamo parlando: bene condannare i muri e battersi per la società aperta, ma mettere insieme dazi e libertà d’espressione è fuorviante e pericoloso. Sul «condividere tutto con tutti», poi, ci sarebbe da discutere. Nel merito e perché per Zuckerberg c’è il sospetto di conflitto d’interessi, visto che per Facebook la parola condivisione è, in un certo senso, sinonimo di fatturato. Bene, infine, l’aiuto ai deboli, agli immigrati. Ma parliamo dei rifugiati siriani (che gli Stati Uniti tengono già oggi lontani) o dei tecnici informatici «low cost» che Silicon Valley vorrebbe assumere in giro per il mondo?