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 2016  aprile 14 Giovedì calendario

I 10 comandamenti di Casaleggio traditi dagli adepti

A mettere in fila le promesse disattese, bistrattate o più semplicemente dimenticate esce fuori un decalogo. Sono i “dieci comandamenti traditi” dal Movimento. Perché tanto è cambiato, rispetto all’ortodossia fondativa di Gianroberto Casaleggio. E tantissimo è destinato a cambiare, con l’avvento dei rampanti capitanati da Luigi Di Maio. «Che fine ha fatto la Rete? – domanda il professor Paolo Becchi, a lungo ideologo dei cinquestelle -E che cosa c’entra il direttorio? Le idee di Gianroberto non si concretizzeranno mai, lo spirito delle origini è stato tradito. Assomigliano a un partito».
Il direttorio: ovvero, un partito
Il muro di Berlino del Movimento crolla il 28 novembre 2014. Il guru è già malato, lo schiaffo delle Europee fa il resto. La Casaleggio associati inventa il direttorio e cancella la regola aurea del non statuto, che recita: «Il M5S non è un partito politico. Vuole realizzare uno scambio di opinioni e confronto democratico senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi». Finisce con un direttivo, imposto da Milano con una lista bloccata. Nulla sarà più come prima.
Francescani a 10 mila euro al mese
«Ci dimezzeremo lo stipendio», fu la promessa, «saremo francescani». Tutto, in realtà, si regge su un immenso equivoco lessicale. I parlamentari cinquestelle trattengono 2.500 dei 5 mila euro della paga base, ma possono contare su altri 3.500 euro di diaria, più i rimborsi. E la cifra lievita. Un calcolo su un campione casuale l’ha fatto il Foglio: la spesa media mensile è passata dai 5.600 euro del 2013 ai 7 mila del 2015. Con la paga base, il totale sfora i 10 mila. Reggerà in campagna elettorale la svolta “francescana”?
I buchi nella Rete
«Noi siamo quelli della Rete – ripete Grillo – noi parliamo ai cittadini senza mediazioni». Sempre meno, o meglio: con minor interazione rispetto al passato. I commenti sul blog si riducono. E la piattaforma dove gli iscritti formulano le leggi sembra un deserto.
La tv è morta
«La tv è morta da un pezzo, gli unici a non saperlo sono quelli che ci vanno. Un mondo senza Minzolini, Vespa, Fazio, nel quale il caravanserraglio dei politici svanirebbe». (Beppe Grillo, 2010). Quattro anni dopo, il leader sprofonda sulle poltroncine di Porta a Porta. È la fine della grande scomunica. Da lì in poi, è caccia grossa per assicurarsi un grillino in trasmissione.
Niente talk, viva i talk
Chissà cosa direbbe il senatore Marino Mastrangeli, buttato fuori nel 2013 per aver violato il codice di comportamento: «Evitare la partecipazione ai talk show televisivi». Tre anni dopo, i cinquestelle affollano i palinsesti. «All’inizio dovevamo imparare – è la linea di Alessandro Di Battista – oggi sappiamo far passare il messaggio».
Il brutto della diretta
«Avevamo iniziato con le dirette, siamo finiti a guardare quelle del Pd...», si arrovella Becchi. Alzi la mano chi non ricorda la novità dello streaming. Dura poco, troppi litigi. Si spengono le telecamere e i veri summit sono ospitati dalla Casaleggio associati.
Liste, un rebus
Recita il non statuto: «Pubbliche, trasparenti e non mediate saranno le discussioni inerenti alle candidature». Le liste per le amministrative, in realtà, rasentano il caos. Il problema? Un meccanismo contorto che consente il voto online solo ai Comuni più grandi, gli altri si arrangino. E allora i meet up si scontrano e gli iscritti litigano. Anche perché il simbolo lo concede Milano, oppure lo nega: è finita così a Salerno, Rimini, Ravenna.
Primarie (quasi) sempre
A Torino, Chiara Appendino è scelta per acclamazione. A Bologna Max Bugani, vicino alla Casaleggio, è imposto dal blog. E il voto degli iscritti?
Prometto e non mantengo?
A Parma, nel 2012, la prima vittoria. Storica, come la promessa in campagna elettorale: «Fermeremo l’inceneritore». Finisce in un altro modo, e il sindaco Federico Pizzarotti viene scomunicato, ma resta nel M5S. Che fine ha fatto quella promessa?
Uno valeva uno
Tirando le somme, lo slogan più abusato del grillismo è ormai in cantina. Lo dimostra l’ascesa di Di Maio, il direttorio, la selezione ossessiva dei volti tv. Uno non vale uno, a occhio.