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 2016  aprile 14 Giovedì calendario

Il referendum sulle trivelle, domande e risposte

Domenica gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi sulle trivelle. Il referendum mette in discussione il passaggio della Legge di Stabilità 2016 che ha bloccato le nuove richieste di sfruttamento degli idrocarburi all’interno delle 12 miglia, ma ha concesso agli impianti in esercizio di andare avanti a oltranza. Cosa cambierà in base al voto? Ecco i punti chiave.
Chi ha voluto il referendum?
Lo hanno proposto 9 Regioni che chiedono di tornare al quadro legale precedente all’ultima Legge di Stabilità. Dunque chi vuole che, allo scadere della concessione, si torni al regime che prevedeva un limite temporale all’uso del petrolio dovrà votare sì. Chi è soddisfatto della situazione attuale dovrà votare no.
Quante sono le trivelle in gioco?
Nella fascia delle 12 miglia ci sono 44 concessioni. Una parte però sono inattive. In totale ci sono 79 piattaforme e 463 pozzi, distribuite tra Adriatico, Ionio e Canale di Sicilia. Di queste, 9 concessioni (per 38 piattaforme) sono scadute o in scadenza ma con proroga già richiesta; altre 17 concessioni (per 41 piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e arriveranno in ogni caso a naturale scadenza. Se vinceranno i sì, si andrà a una lenta riduzione della presenza di trivelle in mare. Se vinceranno i no le trivelle potranno espandersi perché la legge vigente non impedisce che, nell’ambito delle concessioni già rilasciate, siano fatte nuove perforazioni.
Quanto rendono?
Ci sono i canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio (vanno dai 3,59 euro a chilometro quadrato per le attività di prospezione ai 57,47 euro a chilometro quadrato per le attività di coltivazione). E le royalties che in Italia sono pari al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare: in altre parole, entro questi limiti l’estrazione è gratuita. Cosa significa in pratica? Nel 2015, su 26 concessioni produttive, solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio hanno pagato le royalties. In totale nelle casse pubbliche l’anno scorso sono entrati 352 milioni di euro dall’insieme delle trivelle a terra e a mare (quelle in discussione assicurano una minima parte di questo gettito). Sull’altro piatto della bilancia bisogna calcolare gli aiuti diretti e indiretti ai combustibili fossili, una cifra che supera gli incentivi alle fonti rinnovabili.
Quanto petrolio assicurano?
Circa lo 0,9 per cento del petrolio e meno del 3 per cento del metano che usiamo viene dalle trivelle messe in discussione. Se si usasse solo questo greggio per l’intero consumo nazionale, basterebbe per meno di due mesi. In caso di vittoria dei sì potrebbero scattare progetti compensativi come il rilancio del biometano.
E lo smantellamento?
Una voce consistente di costo è lo smantellamento delle piattaforme al momento della chiusura delle attività assicurando il ripristino dello stato iniziale del luogo. Senza un termine per l’uso del giacimento, le compagnie petrolifere potrebbero essere tentate di lasciare a lungo gli impianti inattivi per ritardare il momento della bonifica del sito. Secondo i Verdi questa norma, voluta dall’ex ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, consentirebbe ai petrolieri di risparmiare 800 milioni di euro.
Cosa faranno i concorrenti?
In questo momento non si vede una spinta all’espansione delle trivelle. La Croazia, che è l’altro paese che ha piattaforme nell’Adriatico, ha firmato una moratoria contro le nuove trivellazioni. Un atto che segue di qualche mese la rinuncia da parte di due compagnie petrolifere a proseguire le attività di ricerca di giacimenti in acque croate su 7 delle 10 aree che il governo aveva dato in concessione. Anche la Petroceltic ha rinun- ciato a un permesso di ricerca a largo delle isole Tremiti. Inoltre pochi giorni fa il ministro francese dell’Ambiente e dell’Energia, Ségolène Royal, ha proposto una moratoria sulle trivelle nel Mediterraneo per prevenire “le conseguenze drammatiche che possono colpire l’insieme del Mediterraneo in caso di incidente”.
Si perderà lavoro?
Il fronte del no ritiene che ci siano 10 mila posti di lavoro a rischio. Ma la Fiom-Cgil ricorda che gli impianti off shore sono sorvegliati da remoto solo da 70 persone. Per aggiungere uno o due zeri a questa cifra bisognerebbe immaginare una forte espansione delle trivelle. Che, secondo il fronte del sì, comporterebbe una pesante perdita di posti di lavoro nel settore turistico, producendo un saldo occupazionale complessivo in negativo.
Chi appoggia i due schieramenti?
I due fronti sono trasversali. Per il sì sono schierati praticamente all’unisono il fronte ambienta-lista, le forze a sinistra del Pd, la Fiom, un gruppo di 300 associazioni che hanno dato vita al Comitato Vota sì per fermare le trivelle, buona parte della minoranza Pd, molti personaggi del mondo dello spettacolo (da Luca Zingaretti ad Adriano Celentano), Ermete Realacci presidente della commissione Ambiente della Camera, Alex Zanotelli, i vescovi, i Cinque Stelle, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per l’astensione mirata a far naufragare il referendum si è schierato il Pd. Forza Italia ha lasciato libertà di coscienza.
Aumenterà il traffico di petrolio?
I quantitativi sono estremamente ridotti. Il petrolio è l’equivalente di quello trasportato da tre navi in un anno. Dal punto di vista del traffico marino in caso di vittoria dei sì ci sarebbe comunque una diminuzione perché oggi il petrolio viene portato a terra via oleodotto ma poi imbarcato per arrivare alle raffinerie.
Qual è il futuro del petrolio?
È la domanda cruciale. E le risposte concordano su tutto tranne che sulla data di dismissione. L’uso dei combustibili fossili non è compatibile con il mantenimento del clima attuale. La conferenza Onu di Parigi ha deciso all’unanimità che il riscaldamento globale dovrà essere arrestato al di sotto dei 2 gradi di aumento e di fare ogni sforzo per non superare la barriera di 1,5 gradi. Per l’Europa, calcola la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, stare al di sotto 1,5 gradi significa passare a una riduzione del 50 per cento delle emissioni serra entro il 2030: una forte accelerazione che richiede un passo indietro immediato sul fronte delle trivelle, non un passo avanti.