Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2016
Airbnb, la bambina di 9 anni che ha rivoluzionato il mondo
Airbnb, il marketplace per offerte di soggiorno attivo in 34.000 città e 190 Paesi, oggi vale circa 14 miliardi di dollari e gestisce oltre 1,5 milioni di annunci. Ogni nuova disponibilità di alloggio è a costo marginale nullo: si basa sull’offerta degli asset degli utenti iscritti, che investono in prima persona per migliorare la qualità degli alloggi messi a disposizione. Dato non trascurabile, Airbnb è una bambina: ha solo 9 anni.
Fino a poco tempo fa, anche solo immaginare di raggiungere questi numeri in così poco tempo e partendo da zero sarebbe stato impossibile. Senza contare che per “provarci” sarebbero stati necessari investimenti faraonici.
Che cosa è successo? Il fenomeno è stato battezzato “uberizzazione” – da Uber, l’azienda che non piace ai taxisti perché ha rivoluzionato il concetto di trasporto automobilistico privato, mettendo in collegamento diretto, tramite app, passeggeri e automobilisti. Un fenomeno fatto di nuovi modelli di business, ad alta digitalizzazione, che sconvolgono business tradizionali e si preparano potenzialmente a trasformare, con estrema velocità, qualsiasi attività e settore economico.
Stiamo assistendo all’affermazione di nuove organizzazioni (Airbnb e Uber sono solo due esempi) dove la scalabilità del business si basa sul coinvolgimento di clienti che divengono contemporaneamente prestatori d’opera e di asset proprietari (gli alloggi, le auto), mentre la società mantiene il compito di sviluppare gli algoritmi di matching, di garantire la qualità del servizio e di predisporre interfacce semplici da utilizzare e che consentono dialoghi e feedback continui con il proprio “ecosistema” economico. Sono esempi concreti di sharing economy, che già si manifestano nei trasporti, nell’ospitalità, nella produzione, e che stanno iniziando a diffondersi, per esempio, anche nel mondo finanziario e dell’energia.
Oggi nessun settore, anche se regolamentato, può ritenersi immune da prossimi sconvolgimenti del modello di business e dall’ingresso di nuovi attori dominanti, capaci di abbattere ogni tradizionale barriera all’ingresso basata su investimenti in asset ed economie di scala.
Il tema, per le aziende che si potrebbero definire “tradizionali”, è quindi confrontarsi con un senso di urgenza per il cambiamento mai visto finora, pena non solo un declino dei risultati economici, ma la sopravvivenza. Quali sono, quindi, le leve su cui un’azienda può (e, come abbiamo visto, deve) da subito agire per abilitare un processo di trasformazione che garantisca la sua sopravvivenza nel futuro?
La trasformazione digitale delle organizzazioni complesse dipende, in prima istanza, da un cambio, a volte radicale, della cultura d’impresa che ha dominato nei periodi precedenti. Osservando le caratteristiche delle aziende “native digitali”, si può osservare come la caratteristica principale sia l’attitudine e la capacità di pensare, sperimentare ed agire velocemente, dove la centralità del cliente rappresenta un vero e proprio mantra.
Questa cultura, che richiede un adattamento continuo all’ecosistema cui l’organizzazione appartiene, in una sorta (citando Bauman) di liquidità continua, impone all’impresa di mettere in discussione e di ripensare alcuni dogmi, uno dei quali, ad esempio, è la cultura dell’errore. Come posso sperimentare ed evolvere continuamente senza pensare di procedere per tentativi? Ma come valuto (e magari premio) l’esito di questi tentativi?
Tutto ciò prevede il ripensamento e la riconfigurazione del ruolo e della cultura manageriale, passando da paradigmi come la catena “comando-controllo-supervisione-reportistica” a modelli manageriali che esaltano la capacitò di gestione della complessità, ovvero la capacità di fare domande e dare risposte intelligenti in un contesto dove la quasi maggioranza dei dati non sono strutturati.
A questo si aggiunge la necessità di ripensare l’organizzazione dei processi: di fronte a un tale cambiamento della cultura organizzativa, i processi di agile prototyping e l’affermazione dei modelli organizzativi basati sullo smartworking rappresentano sicuramente una risposta che va nella giusta direzione.
Fondamentale poi un’iniezione di nuove competenze, per imparare a progettare prodotti e servizi con le logiche del service design; sapere gestire al meglio i canali di comunicazione, fisici e virtuali, con i clienti; sapere decodificare e interpretare i dati; padroneggiare i trend tecnologici presenti e futuri. A queste caratteristiche si aggiungono capacità di negoziazione, multidisciplinarietà, senso critico, autonomia di giudizio, iniziativa.
E la tecnologia? L’organizzazione digitale, come si vede, è in realtà una rivoluzione umanistica, una visione più adulta della relazione fra organizzazione e individuo, perché stimola la responsabilità e l’autonomia decisionale reale, un reale superamento del tradizionale concetto Taylorista dell’organizzazione, oggi ancora dominante.
La tecnologia digitale è l’abilitatore fondamentale, che però non può generare l’effetto sperato se non è accompagnato da un ripensamento radicale del concetto di impresa. Airbnb è solo una bambina di 9 anni. Ma ha già molto da insegnare.