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 2016  aprile 13 Mercoledì calendario

L’ultimo canestro di Kobe Bryant

Sarà una serata memorabile, il dio dello sport non avrebbe potuto scegliere meglio. Quando alle 10.30 di questa sera (orario del Pacifico, in Italia le 7 e 30 di mattina) due giganti faranno il loro ingresso nelle arene di Los Angeles e Oakland, il mondo del basket non sarà più quello di prima. Nello stesso istante, a seicento km l’uno dall’altro, Kobe Bean Bryant (37 anni, 1,98 di altezza e 96 kg) e Wardell Stephen Curry II (28 anni, 1,91 e 86 kg) si passeranno l’ideale testimone di uno dei giochi più appassionanti inventati dall’uomo: il primo per il definitivo addio a un palcoscenico che lo ha visto protagonista per due lunghi decenni, il secondo in orbita per nuovi, impossibili, record.
Due Californie, due squadre, due filosofie, Kobe e Steph, due campionissimi come pochi se ne sono visti. A questi livelli fare confronti non ha senso (il mito Michael Jordan non si può cancellare) ma stasera l’America – non solo quella dei fans – sarà incollata alle tv e ai social network e andranno in onda spezzoni e ricordi: i vip faranno a gara per essere intervistati. Un’America pronta a commuoversi per l’addio di Kobe, un addio che è durato un’intera stagione, con le arene Nba esaurite in ogni angolo degli States per ogni singola, ultima, partita dell’uomo-icona dei Lakers. Un’America pronta a dividersi tra chi (e sono in maggioranza i giovani) spera che i Golden State Warriors di Curry battano il mostruoso record dei Bulls di Michael Jordan (72 vittorie nella stagione regolare) e chi tiferà contro nel ricordo di MJ e di una gioventù ormai lontana.
Dopo venti stagioni, 1345 partite, oltre 33mila punti segnati (terzo di tutti i tempi) Kobe ha davanti gli ultimi 48 minuti prima del ritiro. Li giocherà contro gli Utah Jazz in una Staples Arena piena fino all’inverosimile, con la polizia di Los Angeles da giorni pronta a speciali piani traffico (e anti-incidenti) per regolare le migliaia di tifosi che non hanno potuto acquistare il prezioso biglietto ma saranno in massa davanti allo stadio. In una delle loro peggiori stagioni della storia (i Lakers sono ultimissimi della Western Conference con 65 sconfitte e solo 16 vittorie) gli unici a fregarsi le mani sono gli amministratori che, grazie all’addio di Kobe, stanno facendo soldi a palate. Per la partita d’addio c’è chi ha pagato la bellezza di 25mila dollari, c’è chi si è dipinto sullo stomaco l’effigie del campione tipo ‘murale’. In migliaia hanno risposto all’appello del Los Angeles Times (“Eroe, canaglia o leggenda? Dite la vostra”). Saranno 48 minuti (più il pre e post-partita) indimenticabili ed è comprensibile che, visti i diversi incidenti in carriera (questa stagione, come le tre precedenti Bryant ha saltato diverse partite), dirigenti e medici dei Lakers abbiano fatto di tutto per portare Kobe integro alla passerella finale. Passerella da star, come è giusto. Perché quel ragazzone nero, cresciuto in Italia (il padre Joey giocò sette anni da noi), quasi travolto prima dai litigi con il suo ex compagno di squadra Shaquille O’Neal e poi da uno scandalo a sfondo sessuale, non è soltanto un’icona sportiva. Per Los Angeles (e non solo) è un modello di vita, lavoro, tenacia. Per una sera gli occhi saranno puntati (forse) più su di lui che su Stephen Curry. In un anno per lui così trionfale la ‘point guard’ di Golden State può lasciargli i riflettori per un’ora o poco più. Sa bene che da domani il protagonista sarà di nuovo lui. Da solo.