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 2016  aprile 13 Mercoledì calendario

Duemila dipendenti e ventiduemila metri quadrati di superficie. Viaggio nel cuore di Uber, a San Francisco

San Francisco «Ho davvero la possibilità di scegliere cosa rispondere?». Sorride, e replica così, Amal, tassista di San Francisco, se gli si chiede cosa pensa di Uber. Un suo collega italiano partirebbe con un’invettiva di ore contro il colosso valutato più di 62 miliardi di dollari e reo di aver sfidato le auto gialle di mezzo mondo senza curarsi dei paletti normativi.
Qui è diverso. Mentre ci accompagna al quartier generale dell’ex startup, Amal spiega che «Uber è nata qui, non possiamo farci niente. So delle proteste in Europa, in Francia. Noi dobbiamo accettarli». Un misto fra rassegnazione e rispetto. Poi, arrivato dal lato opposto del civico 1455 di Market Street spegne il tassametro prima di fare il giro della strada, forse per ricordare che la bistrattata categoria sa prendersi cura dei clienti quanto gli innovativi rivali, e ci saluta con un appassionato «God bless you».
Il colpo d’occhio prima di entrare nell’edificio che oltre a Uber ospita la seconda creatura del fondatore di Twitter Jack Dorsey, Square, racconta perfettamente la dicotomia della città e della Silicon Valley: verso il cielo si arrampica un palazzo di 23 piani, zeppo di promesse e di dollari più o meno a rischio bolla, e sull’asfalto si rannicchiano tre senzatetto, rappresentanti silenziosi di uno dei fallimenti dell’impennata tecnologica.
Sui marciapiedi della città vivono più di 6.600 persone (dato relativo al 2015 e in crescita del 3,8% negli ultimi due anni). L’immagine di una società spaccata in due si dissolve una volta all’interno del grattacielo e al quarto piano, uno dei tre di proprietà della società fondata nel 2009 da Travis Kalanick per un totale di 22 mila metri quadri di superficie.
In Uber si respira un’aria rilassata e fertile. I 2 mila dipendenti, di svariate nazionalità e con un’età media intorno ai 30 anni, si aggirano per gli spazi in cui si trovano sia scrivanie tradizionali sia postazioni più comode e inusuali, come divani o nicchie in cui accoccolarsi sempre di computer muniti. Non ci sono italiani e si tratta soprattutto di ingegneri e persone attive nella relazione con i clienti e nel reclutamento di nuovi autisti.
Le pareti e i pavimenti richiamano il design del nuovo logo, a sua volta ispirato alle mappe e ai collegamenti fra le città. Capita poi di trovare su una colonna un passaggio di Fondazione di Isaac Asimov, che immaginava di prevedere il futuro con formule matematiche.
In uno dei regni odierni degli algoritmi non è un caso. Non ci sono biliardini o tavoli da ping pong, come spesso accade in realtà analoghe: «Qui è tutto focalizzato sul lavoro», spiega Faryl, pierre 31enne che si assicura elegantemente che non vengano fatte fotografie delle zone con gli schermi accesi. Ha lavorato per Square e si poi è spostata alla corte di Kalanick, racconta mentre mostra con orgoglio il contatore con il numero di veterani assoldati come autisti, uno dei buoni propositi del gruppo.
L’altro, soprattutto negli ultimi giorni, è di rispettare le regole imposte in California sulla selezione di chi scarrozza i clienti: a Los Angeles e San Francisco il mancato allineamento è appena costato una multa di 10 milioni di dollari.
Il rapporto fra gli autisti, sia quelli professionali sia quelli che con UberPop sfruttano il loro veicolo personale, e la società è al centro del dibattito anche nel Vecchio Continente. Il Public policy Matt Kallman sottolinea che «negli Stati Uniti, come in Europa e in Italia, sono lavoratori autonomi, così come i tassisti. Di fatto non si sta costruendo un mercato diverso da quello di prima, ma si consente a tante persone di generare un reddito addizionale».
Uber è e vuole rimanere «un punto di contatto fra persone che devono spostarsi con persone che possono portarle a destinazione». E, piaccia o meno, non è intenzionata a scalare le marce.