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 2016  aprile 13 Mercoledì calendario

Ore 17.58, in morte del Senato

Segni del destino, tristi coincidenze. Mentre la Camera cancella con l’ultimo voto il Senato, nell’aula di Palazzo Madama si esaminano le mozioni sulla sottrazione internazionale dei minori e l’ecobonus. Nemmeno lo straccio di una legge, di una battaglia, di un vitale ostruzionismo. La sala stampa è letteralmente deserta, l’adrenalico cronista di Radio Radicale Claudio Landi si aggira per il salone Garibaldi senza microfno e senza Pc, gli inseparabili compagni di mille giornate campali. «Il Senato è già morto», chiosa il dem Nicola Latorre guardandosi intorno, nel vuoto. Banchi pieni a metà e tante noccioline sgranocchiate alla buvette da senatori poco occupati, gli stessi che si sono azzerati con il loro consenso. Come agnelli che festeggiano la Pasqua o tacchini felici per il Thanksigiving.
Atmosfera cimiteriale. Sguardi bassi e poca voglia di scherzare. Il voto definitivo di Montecitorio sulla riforma (sesta lettura) viene battuto dalle agenzie alle 17 e 58. Nello stesso istante, forse un altro messaggio delle stelle, la presidente di turno al Senato Valeria Fedeli dice nel microfono: «La seduta è sospesa». Non può essere solo una coincidenza. «Davvero è successo nello stesso momento? – commenta incredula la vicepresidente del Pd, chioma fulva e sorriso contagioso —. Non lo sapevo. Poteva mandarmi un sms, è un momento storico. Si vede che sono abbonata agli addii». Racconta infatti la Fedeli di essere stata l’ultima segretaria nazionale dei tessili della Cgil, altra storica istituzione perché «la prima fu Teresa Noce, la moglie di Longo, fondatrice del Pci». Oggi è l’ultima a presiedere una seduta del Senato ancora in vita, ma ufficialmente destinato a sparire, a patto che gli italiani dicano sì al referendum.
Non è qui la festa. Semmai un funerale. Zombie che camminano, commentano due visitatori senza cartellino. I commessi sono distratti, i funzionari chiusi negli uffici. Il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti comunica ai colleghi che oggi possono prenotare i treni anche all’una. Per tornare a casa. «C’è un’aria sbarazzina», dice. Da ultimo giorno di scuola. Da fine corso. «Ma chi li vota ‘sti senatori nuovi?», si chiede Antonio Razzi, mitologica figura di questo Senato e di questa stagione. «I cittadini pagano solo le tasse e non decidono più niente, nemmeno gli eletti, questa è la verità». La spiegazione è da antropologo. «Il Senato – sottolinea Razzi – esiste da 2000 anni, dai tempi di Roma antica. Poi è arrivato il fiorentino e lo cancella. È una questione di invidia, di gelosia». Che poi Palazzo Madama negli ultimi anni ha assunto un ruolo centrale, per via delle sue maggioranze sempre traballanti, delle votazioni imprevedibili. Al Senato sono caduti governi e ne sono nati altri per il rotto della cuffia. «Era una camera marginale – osserva Latorre –, è diventa il punto nevralgico della politica». Che peccato, proprio adesso. «I veri saggi della politica sono qui», rincara Razzi con la sua chioma fresca di barbiere. «Io lavoro da 60 anni, avevo 8 anni quando ho cominciato. Sa quanta saggezza ho dentro?».
I senatori sono 315 anime in pena, ma non mollano anche se sarà un’impresa farsi spostare tutti alla Camera. «Parlerò con Berlusconi. Se mi votano per fare il bene dei cittadini tornerò a Montecitorio. Se non mi votano sto a casa e faccio felice mia moglie», filosofeggia Razzi. Maurizio Migliavacca calcola che almeno 200 parlamentari del Pd sugli attuali 414 usciranno dal Parlamento, ammesso che Renzi vinca le elezioni. Un bagno di sangue. «Salutiamo i ragazzi del liceo di scienze umane Vito Fornari di Molfetta», dice al microfono la Fedeli. E gli studenti applaudono in tribuna, inconsapevoli di assistere all’ammaina bandiera. Il grillino Andrea Cioffi ha altro per la testa. «Non me frega niente del Senato, oggi. Comunque Renzi pensa che sarà un funerale, ma perderà. Questa riforma è una buffonata». Roberto Calderoli è alla buvette e assicura che non è finita finché non è finita: «A ottobre non ci sarà più il governo Renzi e vinceranno i No. Io non mi faccio buttare fuori da un Renzi qualunque. A travolgermi semmai sarà la storia». Parole grosse.
Triste, solitario y final, ai banchi del governo siede il viceministro dell’Economia Enrico Morando. Interviene, precisa, puntualizza, ma in pochi lo ascoltano. Lucio Barani incede nel salone Garibaldi con il solito garofano all’occhiello. È il capogruppo dei verdiani, ovvero fedele alla linea di Renzi. «La giornata storica non è oggi. Sarà l’ultima domenica di ottobre, quando si voterà il referendum. E sparirà il Senato». Ma lui non vuole sparire. Fa di conto per l’elezione alla Camera. «Una lista di centro può superare il 3 per cento. Magari ci rivediamo là, a Montecitorio». Non tutti, però. Per questo c’è tanta amarezza.

Goffredo De Marchis

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Abito grigio, camicia celeste, una cravatta blu scuro, senza neppure quei disegnini che a volte fanno intuire il suo umore. Piero Grasso, l’ultimo presidente di un Senato dov’è stata firmata la Costituzione, si chiude nella sua stanza e segue in tv il voto alla Camera sulle riforme. In un giorno così decide di vestire con il più assoluto rigore i panni istituzionali. Uscendo nel corridoio, a ridosso del risultato, mentre Boschi e Renzi esultano, lui fa il cronista dei fatti: «La maggioranza alla Camera non era in discussione... ora aspettiamo il giudizio dei cittadini». Quando i cronisti lo assediano per conoscere il suo stato d’animo da ultimo presidente replica con un sibillino «aspettiamo il referendum ». Parole che chi cerca la contrapposizione Grasso-Renzi potrebbe interpretare come una sfida del tipo “saranno i cittadini ad affondare la riforma”. Ma l’umore e il pensiero di Grasso non sono affatto questi. A insistere per l’interpretazione autentica della sua battuta se ne cava l’idea di un presidente che, nel giorno dell’ultimo voto sulla riforma, vuole mantenere un profilo istituzionale del tutto privo di sbavature. Quel «aspettiamo il giudizio dei cittadini» non è una sfida, ma una presa d’atto, una costatazione, non certo un «eh... eh... eh... adesso vediamo come andrà a finire ».
Come ha fatto per il referendum sulle trivelle Grasso vuole mantenere un profilo istituzionale. Ha detto che domenica andrà a votare, ma certo non ha anticipato come. Stesso atteggiamento per la riforma costituzionale per cui già lavora in vista di una complessa transizione. Ne parla la mattina con gli alunni di seconda e terza media della scuola Annibale di Francia. Quando i ragazzi, seduti in aula al posto dei senatori, gli chiedono che succede in caso di parità di voto, lui replica che «allora la legge non passa perché servirebbe un voto di più». Chi gli sta accanto pensa subito all’esito del referendum di ottobre.
Finché la riforma è stata un cantiere aperto, Grasso non ha lesinato i suggerimenti. Ma adesso che è legge, l’ultimo presidente di palazzo Madama tace e lavora in vista di una transizione che di certo «non sarà facile». Proprio come ha fatto ieri visto che, per una coincidenza, doveva presentare il master universitario sull’analisi e la valutazione delle politiche pubbliche. Cioè proprio quello che dovrà fare il futuro Senato. Il suo compito, e lo ripeteva ancora ieri con i suoi collaboratori, adesso è questo, «preparare e garantire la transizione».
Liana Milella