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 2016  aprile 13 Mercoledì calendario

In morte di Gianroberto Casaleggio

Mattia Feltri per la Stampa
La residenza dell’anima di Gianroberto Casaleggio era nel Canavese, luogo di leggendarie streghe e di follie oniriche dove Adriano Olivetti aveva impiantato il suo «ecosistema sociale», come lo ha chiamato il Guru, il Visionario, il Samurai del Movimento cinque stelle. Era nato a Milano nel 1954, ma era venuto al mondo lì, a Ivrea, in un’azienda di settantamila dipendenti che sfidava la Ibm e si permetteva di scansare un giovane e brillante microbo dell’informatica, Bill Gates. Allora, inizio Anni Ottanta, Casaleggio già viaggiava fra le suggestioni di antichi miti, la rete dei guerrieri di Gengis Khan e la tavola rotonda di re Artù, e le febbri che fanno vedere il futuro: diventò amministratore delegato, capace ma sciupone, di Webegg, settore di consulenza Internet nella joint venture fra Olivetti e Telecom. Radunava i suoi in stanze ovali (egg) o in castelli medievali, secondo racconti sempre affondati nelle nebbie delle dicerie. Ma da bambino era cresciuto leggendo i romanzi di Urania, la collana fantascientifica di Fruttero e Lucentini, e le magie della storia, il web arcaico dei nuraghi sardi, quello delle strade che fece grande l’Impero romano o quello delle lettere ai fiorentini di Savonarola, una chiara ispirazione anche di implacabile rettitudine. 

Lo chiamavano genio oppure pazzo. Nel Movimento hanno pianto in sua morte e in vita lo hanno descritto spietato. Era il massimo della democrazia e il massimo della dittatura, in questo avanti e indietro fra gli estremi che è stato il succo della sua avventura interamente protesa verso l’utopia di Gaia, il governo mondiale on line senza partiti e senza giudici, in cui l’esistenza stessa sarebbe stata virtuale, e dunque concretissima, con le tecnologie capaci di condurci su Marte, o a fianco di lord Wellington nei campi di Waterloo. 
Ecco, come lo prendi un tipo così? Lui diffondeva questi video, l’ordine planetario dopo la Terza guerra mondiale, l’informazione di Prometeus, giochi didattici che armavano sia i sostenitori della dissennatezza sia quelli della folgorazione. Naturalmente Beppe Grillo era fra i secondi. Al tempo in cui sfasciava con la mazza i computer sul palco, lesse un libro di Casaleggio e gli chiese un appuntamento. Tutto è cominciato lì. Il resto è noto e stranoto, il blog, i meet up, le piazze del vaffanculo, il clamoroso capolavoro politico di aver portato al 25 per cento il movimento dei candidati senza volto, senza storia, senza competenze, nella persuasione per niente post-ideologica che le élite sono per loro natura corrotte. Casaleggio si diceva orgogliosamente populista secondo la dottrina - che contribuì alla fortuna dei totalitarismi novecenteschi, ma anche del superborghese Uomo Qualunque - per cui il popolo buono e laborioso è oppresso da un pugno di sfruttatori. Dunque: uno vale uno, la democrazia dal basso, le consultazioni con gli iscritti sul web, talvolta disattese perché la perfezione non è di questo mondo, e lo si è visto con le dirette streaming, trasformate in recite a soggetto e abbandonate rapidamente. Non c’era leader, ma c’era lui, e c’era Grillo, e c’era il direttorio, tradimenti quotidiani di un sogno tenuto in piedi con lezioni sul flusso di conoscenza che prenderà il posto dell’informazione statica, la scienza dei quanti e l’esoterismo, Asimov e Parsifal, una specie di nuova storia hegeliana che ci avrebbe portato necessariamente in un domani senza capi, senza sindacati, senza librerie, senza tabaccai, senza inquinamento, soltanto energia pulita e trasporti gratis, a fare il giro delle tangenziali con i corrotti alla gogna sui bordi della carreggiata. 
È che poi ci sono le nostre piccinerie quotidiane, e gli toccava di interrompere le visioni futuribili per affrontare le polemiche sulla Casaleggio Associati che spiava le mail dei parlamentari o che guadagnava fin troppo attraverso il blog. Replicava o faceva replicare con fastidio. Scendeva sotto il livello della filosofia del nuovo millenarismo (con la definitiva scomparsa di Dio sostituito dal cosmo informatico) per concedere interviste in cui parlava di Expo, o della sua candidatura nel 2004 a Settimo Vittone (sei voti) o per confidare una certa simpatia giovanile per Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, una stima intatta per Antonio Di Pietro, e la certezza incrollabile della diversità del Movimento: non ha bisogno di leader, né di strutture, né di front man, «nel Movimento comanda il Movimento». Se avesse ragione oppure no, è faccenda di oggi.


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Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera

A vederlo dritto in piedi sulla barca – magrissimo, basco verde alla Che Guevara, capelli brizzolati sulle spalle – mentre sosteneva con lo sguardo la nuotata di Grillo attraverso lo Stretto, faceva pensare a un visionario; tanto più quando, gettatosi nell’acqua fino alla cintola e guadagnata la spiaggia della Sicilia, confidò con tono da cospiratore, a voce appena percettibile: «Stiamo cambiando la storia d’Italia». In realtà, Gianroberto Casaleggio era un precursore. Uno tra i primi ad aver capito che il segno dei nostri anni è la rivolta contro i vecchi partiti e le vecchie classi dirigenti, le forme tradizionali di rappresentanza e anche i media tradizionali.
Il vero capo dei Cinque Stelle era lui; e oggi in Europa, nel bene o nel male, non esiste nulla di simile ai Cinque Stelle. Il movimento che li ricorda di più, Podemos, alle elezioni ha preso il 19%, non il 25; ed è un movimento di sinistra, critico con i socialisti ma pur sempre di sinistra, alla fine dei comizi di Pablo Iglesias si canta El pueblo unido, la sua bandiera è quella della Spagna repubblicana sconfitta da Franco nella Guerra civile; i Cinque Stelle sono trasversali. Destra e sinistra esistono ancora, ovviamente, ma Casaleggio è stato tra i primi a capire pure che la politica contemporanea passa per un nuovo crinale, il sopra e il sotto della società. E la Rete, con tutti i suoi limiti, è lo strumento attraverso il quale chi sente di stare sotto, di non contare nulla, si organizza e fa sentire la propria voce.
Certo, l’azione politica di Casaleggio – tutta dietro le quinte, con controlli elettronici financo sulla posta dei parlamentari – non aveva quelle caratteristiche di trasparenza che dovrebbe avere qualsiasi protagonista della vita pubblica; ed è da chiarire quale sarà ora il ruolo dell’erede, il figlio Davide. Le sue previsioni catastrofiche gli avevano valso un’esilarante parodia di Crozza – «nel 2027 la scomparsa dei giornali e delle ciabatte farà sì che le zanzare domineranno la terra...» —, il bizzarro culto di Gaia gli era costato pesanti ironie. Ma Casaleggio era in sintonia con lo spirito del tempo. Quasi nessuno aveva visto arrivare i Cinque Stelle, nessuno li pensava davanti al Pd alle elezioni del 2013, in pochi credevano che avrebbero tenuto dopo la battuta d’arresto delle Europee; oggi sono al massimo storico, e potrebbero esprimere il sindaco della capitale.
Ora però si apre un grande interrogativo. Soprattutto se Beppe Grillo non tornerà sui propri passi, dopo che aveva rinunciato a un ruolo politico in prima fila. Il movimento accreditato dai sondaggi di quasi il 30% dovrà darsi una nuova leadership, o almeno consolidare quella che ha espresso finora: Di Maio, Di Battista, Fico. Gli scandali dei partiti sono carburante nel motore dei grillini. I loro voti hanno due motivazioni di fondo: l’indignazione e la frustrazione. Il primo è positivo: significa che l’opinione pubblica non è rassegnata né assuefatta, che la domanda di cambiamento è forte. Il secondo è negativo, ma è molto diffuso, in particolare tra i tanti giovani che sembrano essersi arresi prima ancora di combattere, persuasi da una rappresentazione – tutti i politici sono corrotti, tutti gli imprenditori ladri, tutti i banchieri usurai – falsa ma efficace. Per fare un solo esempio, la proposta del reddito di cittadinanza può funzionare se è un sostegno momentaneo legato alla ricerca del lavoro; può essere devastante – in un Paese dove milioni di ragazzi non studiano, non si formano e non lavorano – se comunica il messaggio che lo Stato può darti qualcosa in cambio di nulla. I Cinque Stelle sono al bivio tra partecipazione e populismo: dalla loro scelta dipende molto della qualità della nostra democrazia. Una cosa è certa: quel giorno sullo stretto di Messina Casaleggio non stava millantando; ha davvero contribuito a cambiare la storia d’Italia.

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Daniele Manca per il Corriere della Sera

Si stava dedicando a rimettere in ordine una casa di famiglia nell’Oltrepò pavese. Non si trovava a disagio in quel ristorante affollato di Milano, un mese fa. Un ristorante del centro, comune, dove si mangia in tavoloni assieme a sconosciuti; ci si doveva, per alcune cose, servire da soli: lui si muoveva lentamente. Era chiaro che doveva concentrarsi per farlo. I silenzi erano aumentati. Lo sguardo era il solito, quello un po’ fisso, di chi riflette attentamente sulle parole e sui concetti. Ma uno sguardo che si prolungava. Le persone attorno lo guardavano. Lo riconoscevano. Non sembrava infastidito.

Lui, il fondatore di un partito in grado di controllare un quarto dei voti in Italia, pareva preferire i suoi pensieri. Le idee sul mondo che si stava preparando; e che ha provato, riuscendoci in parte, a mettere in rete e in gioco assieme a un comico fattosi tribuno.

Chiamarle conversazioni, quelle con Gianroberto Casaleggio, non è del tutto esatto. Penetrare la sua apparente freddezza, interrompere il flusso delle riflessioni che sembravano accavallarsi una dietro l’altra nella sua mente rivolta al futuro, era difficile, quasi impossibile. Alle domande seguivano silenzi, a volte sorrisi. Seguiva percorsi di pensiero eccentrici, insoliti, che apparivano anche bizzarri, ma che tornavano sempre al cuore del suo interesse: le persone, la comunità, il loro governo, o meglio l’autogoverno. Era una sfida colpirlo con qualche considerazione. Non era facile, e non lo è stato anche in quell’ultimo incontro.

Ancora un paio di telefonate, prima di ieri. Ma su Beppe Grillo, lo spettacolo. È stato in quel paio d’ore di dialogo che si sono intrecciate Torino, la candidata Chiara Appendino, la campagna elettorale a Roma della 5 Stelle Virginia Raggi, poi il possibile leader candidato a premier e la tecnologia, la famiglia. Quella casa dove viveva con la seconda moglie e il figlio piccolo, con un bosco alle spalle e la terrazza affacciata sulla Valle d’Aosta, su quei vigneti coltivati nella cittadina a fianco, Carema, e il vino rosso prezioso che ancorava gli abitanti a quella terra.

Ma soprattutto il mondo che non sarebbe stato più lo stesso. Ne era convinto. Quando descriveva il suo immaginario futuro, o buttava lì previsioni che apparivano fuori da ogni logica apparente, diventava impermeabile alle facce incredule e a volte sprezzanti di chi lo ascoltava. Era un visionario, certamente. Sottovalutato, comunque poco compreso, da chi non ha amato e provato a capire cosa fosse e sia il fenomeno 5 Stelle.

È del 2008 quel video, Gaia, postato in Rete dalla Casaleggio Associati, nel quale prefigura per il 2054 un mondo senza divisioni, collegato in Rete, dove ti esprimi continuamente sul governo della tua comunità, alimentato non più da combustibili fossili e dove l’ambiente torna a essere pulito. Non più partiti, non più ideologie. È il 2008. Soltanto un anno dopo, Google lancerà il suo Page rank , il motore di ricerca basato su 57 «ragni» che piazzati nei computer di ognuno di noi iniziano quella rivoluzione in Rete e la creazione di una sorta di intelligenza collettiva che a volte sembra annichilirci quando scopriamo che la Rete sa molto di noi. Troppo. Era questo che immaginava Casaleggio per il 2054...

Ma pochi minuti dopo quel pranzo, avrebbe incontrato lo stato maggiore dei 5 Stelle per decidere cosa fare su Roma. Scovare Virginia Raggi era stato il colpo per tentare la scalata al Campidoglio. Perché vincere la corsa per il sindaco e poi, soprattutto, amministrare Roma, sarebbe stato il passaggio decisivo per poter pensare alle elezioni nazionali e candidarsi al governo. Altro che futuro. La concretezza dell’oggi, dell’uomo di impresa cresciuto all’Olivetti dopo gli studi al Feltrinelli, l’istituto tecnico milanese che, assieme all’Enrico Fermi di Roma, con le sue sezioni di informatica e nucleare, aveva rappresentato negli anni Sessanta e Settanta il top per un giovane che voleva collocarsi al confine più avanzato con la modernità e la scienza. Poi i tre anni di fisica e l’approdo a Ivrea. I viaggi all’estero.

L’Olivetti rappresentava il meglio dell’informatica non solo italiana «che perdeva o vinceva le gare con l’Ibm non con le piccole aziendine», come ebbe a dire. A Ivrea a scrivere software. Lì incontra la sua prima moglie, inglese, Elizabeth Claire Birks, oggi ritornata a vivere in Gran Bretagna, madre del primo figlio avuto a vent’anni, Davide. Il trentanovenne apparentemente taciturno ma con le idee molto chiare riversate in un libro ( Tu sei Rete con prefazione di un altro comico grande affabulatore, Alessandro Bergonzoni). Idee in linea con quelle del padre accanto al quale lavorava. Nel libro si parte ancora una volta dai singoli che, collegati in rete, «attraverso piccole cose cambiano le società».

Chissà il peso avuto da Adriano Olivetti, quello di Democrazia senza partiti , che scrive, nel 1946, che il popolo non è organizzato e «l’espressione della sua volontà è una mistificazione perché i suoi mediatori — i partiti — hanno perso il contatto con esso». La comunità «concreta a base territoriale» di Olivetti si trasforma, grazie a Internet, in una moltitudine di persone, comunità che interagiscono non solo e non più in relazione all’incontro fisico, in un luogo. Il virtuale diventa realtà. Ecco l’intuizione. La tecnologia non sta cambiando solo l’economia, il modo di produrre, ma anche le strutture sociali. Dopo Olivetti il passaggio in Finsiel (una delle poche grandi aziende di software italiana oggi scomparsa anch’essa), la guida di Webegg. L’incontro con la sua seconda moglie Sabina Del Monego. Un altro figlio. La scelta di vivere alle porte della Val d’Aosta.

L’anonimato ricercato ma impossibile con quel volto e i capelli inconfondibili, se non sulla sua collina. I rari incontri pubblici. Al Forum Ambrosetti di Cernobbio, al Corriere della Sera con i giornalisti che si sentono dire nel 2011 che «tra dieci anni non ci saranno tutti quotidiani di oggi». Avrebbe voluto scrivere ancora, non tanto, «una volta a settimana». Per dare corpo alle sue intuizioni e visioni. A quell’intelligenza collettiva, che però ha sempre bisogno di qualcuno che tiri le fila. E chi sarebbe stato questo qualcuno, potenziale presidente del mondo? La Rete, certo... Ancora un silenzio, un sorriso e un ultimo sorso di prosecco, mangiando una torta. Sapendo che i visionari molte forse le sbagliano, ma qualcuna di sicuro l’azzeccano.


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Filippo Ceccarelli per la Repubblica

Nel profluvio luttuoso e in alcuni casi anche abbastanza ipocrita che ha accompagnato la morte di Gianroberto Casaleggio spiccava ieri una parola, una qualità, un attributo che l’odierna politica, così miserella e schiacciata sul presente, senz’altro fatica a riconoscere: «visionario».

Non è più tempo infatti di visionari, e chi si porta appresso questa caratteristica, chi guarda al mondo come potrebbe e dovrebbe essere e di conseguenza s’impegna in quella direzione con uno slancio palingenetico sembra subito, per dirla brutale, un po’ matto.

Tutto lascia pensare che di tale scomodo pregiudizio Casaleggio fosse non solo consapevole, ma anche piuttosto divertito; per cui ci dava dentro, a partire dal look tipo manager hippy e poi dalle pose che assumeva nei rarissimi foto-ritratti d’autore, dai tanti eroi di cui celebrava la memoria tra fiction (Tex) storia (Gengis Khan) e religione (San Francesco), ai fantavideo apocalittico che disseminava sul web, fino alle immaginifiche formule – «noi, i pazzi della democrazia », «io orgoglioso populista» – che gli suggeriva un linguaggio insieme tecnologico e provocatorio, larvatamente confessionale e vagamente pannelliano.

In più nel caso di Casaleggio tutto questo si combinava con un genere di riserbo personale che in epoca di esibizionismi e spudoratezze finiva per essere interpretato come la prova che il personaggio nascondeva di sicuro dei misteri, o peggio dei segreti. Né per la verità i gruppi di comunicazione cinquestelle, regolarmente assimilabili come un’emanazione della «Casaleggio Associati», allontanavano i sospetti. Per cui il passo ulteriore era quello di immaginare il titolare di quella agenzia come il classico ideologo in penombra, un Dottor Stranamore, superiore illuminato, arcano guru e nel caso pure stregonesco.

La post-politica vive infatti di semplificazioni, in genere tutt’altro che innocenti e per forza di cose anche il M5S ci sguazza. Ma per come si è drammaticamente concluso ieri, tutto oggi si può dire del rapporto tra Beppe Grillo e Casaleggio, ma non che sia stato semplice, né che mai si sia potuto considerare come un rapporto di reciproca utilità o di mero potere.

Anche in questo si misurano i tratti del visionario: nel mantenere il proprio interesse sotto ogni umana aspettativa, nel disinteressarsi appunto delle proprie convenienze come di irrilevanti faccenduole magari per inseguire l’utopia della felicità collettiva o scrutare gli orizzonti della democrazia nel tempo del web.

E’ possibile che Grillo, che pure nelle sue virtù istrioniche vive di intuito e di messianismo, l’abbia capito prima e meglio di chiunque altro. Così come è possibile che Casaleggio abbia visto in quell’attore che sfasciava computer sul palcoscenico un possibile protagonista della vita pubblica di un paese rabbioso e allo sbando. Sia come sia, poche altre coppie hanno marciato in armonia e nel duro giorno per giorno della politica, in rarissima sincerità.

Due flash, due momenti, uno di gioia e l’altro no, lascia agli annali della cronaca questa amicizia nemmeno troppo lunga, ma senza mai l’ombra di un’incrinatura. Quando Grillo attraversò lo Stretto c’era anche Casaleggio su una delle barchette che lo seguivano e quando il leader nuotatore toccò terra, lui così discreto, così piemontese, si buttò in acqua inneggiando all’impossibile che era divenuto realtà.

Quasi due anni dopo, andate abbastanza male le elezioni europee, Grillo comparve in un video che si concludeva con l’assunzione di una pastiglia di Maalox. «Casaleggio, “Casa” - reclamava - vieni anche tu a prenderlo! ». Si sentì una specie di brontolio fuori campo. Forse è perfino normale che i visionari siano i meno visibili.


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Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano

Avederlo così, la prima volta, credo sotto il palco del V-Day del 2007 a Bologna, quando il Movimento 5Stelle non esisteva forse neppure nella sua testa, non mi fece una grande impressione. Solo la bizzarra acconciatura e la voce di Paperino con una leggera zeppola di pronuncia lo distinguevano da uno dei tanti travet con l’impermeabile beige e la ventiquattr’ore. Poi mi propose una zona franca in diretta streaming sul blog di Grillo, ogni lunedì. La chiamammo Passaparola e funzionò. Dopo un po’ mi disse: “Tu non puoi lavorare gratis: ma ora raccogliamo i tuoi interventi in tre o quattro dvd all’anno, li vendiamo online, ci paghiamo le spese e ricaviamo il tuo compenso”. Obiettai: “Ma chi se li compra, se i Passaparola sono tutti online?”. “Tu sottovaluti il web, in poco tempo si farà tutto in Rete”. Naturalmente i dvd non se li comprò nessuno (come del resto quelli dei V-Day, con cui s’illudeva di coprire le spese delle kermesse, poi rimaste in gran parte sul groppone di Grillo che aveva anticipato le somme e, da genovese, si può immaginare con quale entusiasmo). Continuammo comunque per tre anni e mezzo. Finché il blog diventò l’organo ufficiale del M5S che, fondato da Grillo&Casaleggio nell’ottobre 2009, si accingeva a entrare in Parlamento: mi parve giusto allontanarmi. Anche se mai una volta Gianroberto mi aveva detto cosa dovevo dire, o non dire. Nel frattempo, un mese prima dei 5Stelle, era nato il Fatto e, vista la sua abilità nel fabbricare siti e blog, avevamo pensato di chiedergli una consulenza per ilfattoquotidiano.it. Mission impossible, per due insanabili divergenze: lui pensava che chi mette in piedi un sito non possa limitarsi a un contributo tecnico, ma debba dire la sua sui contenuti, e aveva ragione, infatti ce lo facemmo da soli, in assoluta indipendenza; diceva pure che il Fatto doveva uscire soltanto online, finanziandosi con pubblicità e sottoscrizioni: “La carta è morta”. E qui si sbagliava.

Da allora ci siamo visti una sola volta, quando lo intervistai alla vigilia delle Amministrative del 2014, che lui dava già per vinte e io per perse. Qualche volta ci sentivamo, per motivi di lavoro: lui chiamava per contestare qualche mio o nostro articolo, io per chiedere lumi su certe scelte assurde (dal patto con Farage a molte espulsioni con metodi antidemocratici) e qualche intervista, quasi sempre negata. Casaleggio era un impasto di antimodernità e modernità, di intransigenza fondata sui valori del buon senso antico e di tecnologia applicata al futuro. Un Tecnorobespierre.

Esperto di comunicazione digitale, comunicava pessimamente se stesso. Detestava a tal punto i riflettori che quasi faceva apposta a rendersi antipatico e respingente con i giornalisti, quando gli sarebbe bastata qualche moina paracula per metterseli in tasca. “Intervistate i nostri ragazzi in Parlamento, io sono un privato cittadino, non mi va di mettermi in mostra”. Anche in questo era l’anti-Grillo: tanto irruento, torrenziale, emotivo, casinista e incontinente è l’uno, quanto misurato, pacato, timido, controllato e razionale era l’altro. Non rideva quasi mai, salvo quando parlava di “Beppe”. I due si completavano a vicenda: un solo leader a due teste. Eppure questo travet coi riccioli era molto più ingenuo di quanto si pensi: alla “rivoluzione della gente comune nelle istituzioni” ci credeva davvero. Capace di una lucida follia, o di una folle lucidità, che gli faceva amare insieme Gengis Khan e Berlinguer, Borsellino e i padri costituenti, e che un giorno gli fece balenare quell’autentica pazzia che è il M5S: un movimento senza leader, ideologia, organizzazione, strutture, sedi. E soprattutto senza soldi. Non per partecipare, ma per vincere.

Quando ne parlava all’inizio, sempre sottovoce con la voce di Paperino, suscitava solo ilarità. Poi, da quando la cosa prese a sembrare possibile, le risate divennero calunnie, insulti, notizie inventate per sputtanarlo. È raro trovare un leader politico più vilipeso di lui. Arricchimenti fantasmagorici, logge segrete, poteri occulti, addirittura lo spionaggio delle email dei deputati. “Mi mancano solo i riti vudù e i sacrifici umani”, scherzò una volta, mentre raccoglieva nel libro Insultatemi pure le offese collezionate. Non se ne dava pace: “Ma cos’ho fatto di male? Perché non si rassegnano all’idea che faccio questo perché mi sono rotto le scatole (la sua massima imprecazione, ndr) di vedere il mio paese andare a rotoli per una classe dirigente di ladri e incapaci. Dietro Casaleggio c’è solo Casaleggio. Una persona normale, forse banale. Ho sempre vissuto del mio lavoro, pagato le tasse, rispettato le leggi, poi ho cofondato un movimento che restituisce i soldi pubblici, mantiene le promesse fatte agli elettori, caccia i voltagabbana e impoverisce i suoi fondatori anziché arricchirli. E soprattutto sono incensurato”. Ecco, forse questo disturbava tanto: un incensurato che pretende di fare politica senza chiedere soldi pubblici né cariche (“al massimo potrei fare il ministro dell’Innovazione”). Una bestemmia. I metodi li abbiamo spesso contestati: Casaleggio in cuor suo sapeva bene che, senza la frusta e il pugno di ferro del “garante”, l’Armata Brancaleone si sarebbe subito sfaldata, o fatta comprare, o scalare.

Ora che se n’è andato dopo avere scritto un bel pezzetto di storia d’Italia, ma senza vedere il suo sogno realizzato, ha liberato i 5Stelle da quell’ingrata incombenza che prima o poi tocca a ogni movimento: uccidere il padre. Da oggi il M5S si ritrova troppo presto senza papà (Grillo è, per temperamento, la mamma). Ed è costretto, dall’oggi al domani, a diventare adulto.

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Massimo Fini per il Fatto Quotidiano

Il mio primo incontro con Gianroberto Casaleggio fu astrale. Alcuni anni fa i ragazzi di Grillo mi chiesero un’intervista televisiva su un argomento internazionale, credo l’Afghanistan. Mi dissero che dovevo andare alla Casaleggio Associati di cui io allora avevo una contezza molto vaga, in via Morone 6 nel pieno centro di Milano fra via Manzoni e piazza Meda e al cui angolo c’è la casa del Manzoni.

Andai. Mi introdussero in un locale piuttosto squallido con un lungo tavolo rettangolare tipo riunione. Entrò un tipo alto, magro, allampanato, con degli incredibili capelli che gli scendevano come spaghetti lungo le guance. Mi fu presentato. Ma io non ne capii il nome o meglio mi parve che si chiamasse Zé Roberto che era allora un importante mezzala del Bayer Leverkusen. Lo strano individuo cominciò un discorso abbastanza lunare di cui capii poco o nulla, interloquendo pochissime volte.

Intanto friggevo e pensavo: “Ma quando mi fanno questa intervista? Non ho tanto tempo da perdere”. Alla fine lo strano soggetto si decise a portarmi nello studio televisivo, chiamiamolo così. In realtà era un bugigattolo e gli strumenti tecnici erano ridotti al minimo, una modesta telecamera. Le domande, però, furono precise e puntuali. Quando l’individuo se ne andò chiesi al suo assistente: “Ma davvero quello si chiama Zé Roberto come la mezzala del Bayer Leverkusen?”. “No. È Gianroberto. Gianroberto Casaleggio”.

Rividi Casaleggio poco dopo, sempre in via Morone. Ma c’ero andato insieme alla mia fidanzata per cazzeggiare un po’ con Beppe Grillo che parlò quasi tutto il tempo con lei di tecnoecologia, appallandomi mostruosamente. Casaleggio fece capolino e restò nella stanza solo un paio di minuti.

In seguito l’ho rivisto molte volte, ma sempre in via Morone e per motivi professionali, mai in ambienti conviviali cui mi sembrava refrattario. Pensò anche di coinvolgermi in un libro sulla “democrazia diretta” insieme ad Aldo Giannuli, una sorta di improvvisato maitre à penser dei Cinque Stelle, insopportabile per la sua logorrea. Pensava di ripetere la formula de “Il Grillo canta sempre al tramonto”, libro firmato da Beppe, Dario Fo e lo stesso Casaleggio. Ma la cosa non funzionò. Un po’ per colpa mia, che non credo alla democrazia né indiretta né diretta, un po’ per il narcisismo di Giannuli che se la dava, infastidendolo, da grande amico di Gianroberto pur conoscendolo solo da un anno, e un po’ anche per l’incapacità di Casaleggio di governare la discussione. “Non è scattata l’alchimia” mi disse un Casaleggio parecchio imbarazzato.

Era una persona timida, chiusa, estremamente riservata. Solo una volta, negli ultimissimi tempi, si lasciò un po’andare e mi raccontò qualcosa del suo privato, del pezzo di terra che aveva comprato in Piemonte dove si distraeva producendo olio e altri prodotti agricoli e dove aveva intenzione di ritirarsi. Purtroppo, poiché Dio non ama i sogni degli uomini, non ne ha avuto il tempo.

Aldilà di qualche spericolata “fuga in avanti” non era solo un formidabile organizzatore ma una testa fina che compensava il temperamento casinaro di Grillo che un po’ confusionario lo è.

La sua perdita è grave per i Cinque Stelle ma forse, sia detto col dovuto cinismo, viene al momento opportuno perché anche per i giovani del movimento è venuto il momento di lasciare i padri e di diventare adulti.