Il Messaggero, 12 aprile 2016
Così sparivano le opere d’arte italiane
L’Ottocento è il secolo in cui nascono i grandi musei del mondo ma, con i primi decenni del Novecento, è anche il periodo in cui maggiormente fuggono all’estero i capolavori italiani. In tanti modi, più e meno leciti. Peter Arrel Brown Wiedener, uno tra i tanti «squilionari» come usava chiamarli Bernard Berenson, inizia a fare fortuna vendendo carne di montone all’esercito federale durante la Guerra di Secessione, e la completa occupandosi di treni, tabacco, industria, petrolio. Il figlio Joseph lascia alla National Gallery di Washington 600 opere. Anche dieci ritratti dei Grimaldi di Antoon Van Dyck, che erano a Genova. Suo padre li aveva portati via nel 1908, arrotolati in due tubi di scappamento aggiunti apposta a quelli esterni che c’erano sulla sua automobile, in anticipo spedita in Europa.
Oggi, la National possiede 20 Van Dyck. Epoca di grandi vendite, epoca di grandi misteri. Forse, potranno essere in parte diradati dopo che la National Gallery ha acquisito a Londra gli archivi di «Thomas Agnew and Sons», uno tra i maggiori mercanti nel tempo, come il Getty Research Institute ha ottenuto quelli della Galleria Knoedler di New York, attiva dal 1846, ma chiusa nel 2011 dopo un grave scandalo.
SCOPERTE
Le «carte» degli Agnew le ha studiate Barbara Pezzini e ha scoperto che il ministero del Tesoro inglese aveva dato istruzioni perché la Galleria non acquistasse dai mercanti di Londra; «nelle vicende di sole tre opere è presente il nome della casa d’asta Christie’s, come venditore: perché, di solito, si diceva che provenissero da raccolte private. Uno tra questi tre casi è l’Orazione nell’orto di Giovanni Bellini», fuggito da Venezia grazie agli uffici di Joseph Smith, console britannico: la compera tre secoli dopo che egli l’aveva dipinta, tra il 1465 e il 1470; poi è in varie raccolte inglesi, fino all’asta del 1863. Mentre lo studio degli archivi Knoedler, già rilevati dal miliardario americano Armand Hammer (che aveva fatto molti affari con Mosca dopo la Rivoluzione d’ottobre, e possedeva anche il Codice Leicester di Leonardo poi venduto a Bill Gates), non è ancora concluso. Soltanto le foto occupano 400 metri di scaffali.
Knoedler è stato il principale mercante di Henry Clay Frick, la cui residenza da cinque milioni di dollari è sulla Quinta Strada a New York, e che aveva fatto fortuna con il «coke» e l’acciaio. Da lui proviene, nel 1919, uno dei massimi capolavori di Bellini, San Francesco in estasi, fuggito da Venezia a fine Settecento, e dalla Penisola a metà del secolo dopo. Una bellissima foto eterna, nel 1898 su un calesse, il mercante con Frick e Andrew Mellon, ministro del Tesoro americano, e fondatore della National Gallery di Washington.
IL RE
Frick, però, non disdegnava di servirsi anche di un altro mercante: Joseph Duveen, il più importante di tutti. Da lui riceve, ad esempio, una tavola della predella della Maestà di Duccio da Buoninsegna da Siena: la Tentazione di Cristo. L’immensa opera era stata spostata e in parte smembrata nel 1878; per sei anni, alcuni dei suoi dipinti sono rimasti a Giuseppe e Marziale Dini di Colle Val d’Elsa, finché questa cade sotto l’occhio rapace del «re dei mercanti». Che ne vende altre a Samuel Kress (la donerà poi alla National di Washington); a John Rockefeller; al Kimbell Museum di Fort Woth e alla collezione Thyssen di Madrid. Duveen e Agnew fanno anche affari assieme: da loro proviene il Ritratto di Bindo Altobiti di Raffaello, in Italia fino al 1908, poi di Ludwig I di Baviera, di Samuel Kress e ora alla National di Washington. L’immenso banchiere Altoviti viveva sul Tevere, davanti a Castel Sant’Angelo: il palazzo scomparirà solo quando nasceranno i muraglioni sul fiume.
Ma non sempre le ciambelle, come usa dire, riuscivano con il buco. Ancora Wiedener, ricorda un funzionario di Duveen, riceve, nel 1908, un’enorme cassa, che non entrava in casa. Viene sballata nel cortile e ne esce un enorme gesso: il busto dello «squilionario», più grande del vero di quattro volte. «Apritelo» ordina Wiedener. «Ma è già sballato», ribatte un impiegato. «Aprite il busto, intendo dire». Celava una piccola figurina in terracotta, acquistata in Italia come un Michelangelo che, ovviamente, non era.
ARCHITETTURA
Secondo un altro grande collezionista, l’avvocato John Graver Johnson, Wiedener «spendeva in anticipo il suo reddito di un milione e mezzo di dollari all’anno, in opere d’arte»; e Frick, «ogni anno, tra i due e i quattro milioni di dollari». Hanno fatto grande l’arte negli Usa; anche con congrui apporti dal «bel Paese».
Li seguiranno, senza mai emularli, in tanti. Anche Isabella Stewart Gardner, che fonderà il museo a se stessa intestato a Boston. I balconi della sua Fenway Court, che somiglia a Venezia, sono appunto quelli di palazzo Cavalli-Franchetti, sul Canal Grande, ai piedi del Ponte dell’Accademia, il cui restauro eseguito da Camillo Boito (fratello del paroliere di Verdi, Arrigo) lei, chissà come mai, propugna nel 1878. Perché dall’Italia sono partiti tanti quadri, ma non solo.