Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 12 Martedì calendario

Che noia il critico letterario che parla solo di sé. Contro Harold Bloom

Si può essere stanchi della prestigiosa, inarrivabile, baldanzosa sicumera senile di Harold Bloom? È appena uscito in Italia il suo Canone americano (Rizzoli) e nelle interviste Bloom ci ammannisce subito le sue simpatiche, gratuite ossessioni. Per esempio: Stephen King, David Foster Wallace, Jonathan Franzen? Trash. Tutti da buttare nel bidone della spazzatura. Dalla spazzatura si salvano solo gli autori che Bloom mette nell’empireo. In mezzo, tra l’empireo dei (suoi) sommi e la pattumiera, non c’è niente. I Nobel degli ultimi decenni? «Idioti di quinta categoria». I critici? Non esistono. L’unico a salvarsi, ovviamente, è lui, Bloom. E poi ci sono pochissimi illustri sconosciuti che hanno il solo merito di essere amici di Bloom. Al cui nome infatti, per un pigro automatismo giornalistico, si affianca abitualmente un’apposizione priva di sfumature: «Il più grande critico del mondo» ovvero «il principe degli studi letterari».
Si può essere stufi del «più grande critico del mondo» e del suo sonnolento e schifato snobismo? Si può averne abbastanza dei suoi canoni (e dei canini con cui addenta da mezzo secolo i suoi avversari)? Il fatto è che, anche in letteratura, alla lunga risulta stucchevole lo sforzo immane di voler passare alla storia con l’aggettivo «originale» stampato sulla carta d’identità alla voce «segni particolari». Che noia. Ogni frase di Bloom mira a stupire, ma si tratta per lo più di frasi scontate o immotivate. Che cos’è il sublime letterario o il «daimon» su cui si concentra questo suo ultimo libro? Per definirlo Bloom si affida niente meno che a Thomas Weiskel, un suo ex allievo («morto tragicamente nel vano tentativo di salvare la figlioletta», ci tiene a precisare): «Il principale assunto del sublime è che l’uomo può trascendere l’umano, tanto nel sentimento quanto nella parola». Che vuol dire il classico tutto e niente.
Scorrendo l’indice dei nomi, ci si accorge che Bloom non cita nessun collega, bibliografia zero. Se c’è da compiacersi che la critica pseudoscientifica sia un ricordo lontano, Bloom ci fa precipitare dalla padella alla brace: un approccio alla letteratura umorale, enfatico, maniacale, viscerale. I suoi oggetti di studio non sono né Whitman né Melville né Dickinson né Eliot né Faulkner, e neanche Dante o Shakespeare: il suo vero oggetto di studio è lui stesso, Harold Bloom in persona. Con i suoi canoni e i suoi canini. Che noia. La critica narcisistica ci fa venire nostalgia dello strutturalismo.