Corriere della Sera, 12 aprile 2016
Tiranno sanguinario o nemico delle infamie del suo tempo? Le due versioni di Ezzelino da Romano nella Divina Commedia
Ezzelino III da Romano, detto Ezzelinello, ha l’indiscutibile privilegio di essere l’unico personaggio che nella Divina Commedia compare due volte. La prima all’Inferno, la seconda (pur senza essere esplicitamente nominato) in Paradiso. Il suo contemporaneo Rolandino da Padova – in Vita e morte di Ezzelino da Romano (Cronaca), pubblicato da Mondadori a cura di Flavio Fiorese – ne indica la data di nascita al 25 aprile del 1194. Nota Giorgio Cracco – nell’intrigante libro Il Grande Assalto. Storia di Ezzelino. Anche Dante la raccontò, in procinto di essere pubblicato da Marsilio – che nel momento in cui Ezzelino III da Romano venne al mondo, Francesco d’Assisi era un giovincello di dodici anni, stava nascendo Federico II, era in procinto di venire alla luce Antonio da Lisbona, il futuro santo di Padova, e sarebbe presto diventato papa Lotario dei conti di Segni, che avrebbe preso il nome di Innocenzo III. Ce n’è abbastanza, afferma Cracco (già autore di un precedente libro sullo stesso personaggio, pubblicato da Neri Pozza), «per concludere che Ezzelino nacque in mezzo a giganti e in tempi di eventi giganteschi».
Il capostipite della sua casata era stato probabilmente un «teutonico» giunto in Italia tra il 1024 e il 1039 al seguito dell’imperatore Corrado II. La famiglia si era insediata in un’area strategica tra Padova, Vicenza e Treviso, che erano divenute Comuni rispettivamente nel 1138, nel 1147 e nel 1162. Quando Federico Barbarossa mosse all’attacco dei Comuni dell’Alta Italia, suo nonno, Ezzelino il Balbo, si schierò dalla parte avversa all’imperatore, il quale però, dopo la pace del 1183, lo riaccolse tra i suoi alleati. Suo padre, Ezzelino II, fece una politica spregiudicata, grazie alla quale giunse a signoreggiare su tutta la Marca. Fino allo scontro decisivo con Azzo IV d’Este, che, pur spalleggiato da Innocenzo III, fu sconfitto nella battaglia di Ponte Alto (1212). In quel momento Ezzelino II divenne padrone di Treviso, Vicenza, Verona. Nel 1221, quattordici anni prima della morte, si diede alla vita monastica spogliandosi di tutti gli averi. Di qui il soprannome di Ezzelino «il monaco».
Il figlio, Ezzelinello, che assieme al fratello Alberico ereditò quegli averi, estese il dominio lasciatogli in eredità dal padre, e fu alleato dell’imperatore Federico II. Fu un combattente spietato e gli si rivoltò contro persino il fratello. Nel decennio che precedette la sua morte (1259) fu scomunicato da Papa Alessandro IV per la sua «efferata crudeltà» (il Pontefice sostenne che, oltre a torturare e uccidere, aveva accecato dei bimbi innocenti) e Azzo VII d’Este ottenne addirittura l’autorizzazione a condurre contro di lui una crociata. Che però, pur essendo riuscita a coinvolgere ampi strati di popolo e ad espugnare Padova, non ebbe successo. Quantomeno non definitivo. Il 28 aprile del 1258, il Papa con una lettera inviata al vescovo di Treviso bollò Ezzelino come «scandalo della fede e macchia del popolo cristiano». E il marchio gli rimase impresso fino a quando nel settembre del 1259 morì in circostanze mai chiarite. Anche oltre. Il fatto che Ezzelino fosse defunto, che tutti i suoi parenti fossero stati sterminati, scrive Cracco, «non bastava». Ezzelino faceva paura anche da morto. Bisognava distruggerne la memoria. Perciò da quel momento, e per parecchi anni, non ci fu documento della Chiesa che, dovendosi riferire a Ezzelino, non ne riproponesse la condanna in termini inequivocabili, «destinati a far breccia e a stamparsi per sempre nell’immaginario di tutti».
A Dante, che scriveva alla fine di quello stesso secolo, parve dunque doveroso collocarlo negli inferi, nel dodicesimo canto, tra i «tiranni/ che dier nel sangue e nell’aver di piglio». Il poeta, secondo Cracco, quando mise Ezzelino all’Inferno, «fece ben capire quanto si sentisse lontano, anzi agli antipodi rispetto a lui, che implicitamente squalificava come individuo del tutto negativo, divorato dall’odio per il prossimo e dalla bramosia di razziare beni altrui, rozzo e ignorante, di natura infima e anzi animalesca». Animalesca al punto che, oltre a metterlo all’Inferno assieme ad altri despoti del passato come Dionigi di Siracusa, lo identificò per un particolare anatomico più consono a una bestia che a un uomo: il «pel così nero» che aveva in fronte.
Trascorse poi qualche anno e l’autore della Commedia ebbe un ripensamento. Mentre era già in circolazione la prima Cantica, nella quale Ezzelino era descritto nei modi di cui si è detto, Dante decise di «incontrare», nel nono canto del Paradiso, sua sorella Cunizza. Qui con il «caro assenso» di Beatrice può servirsi di Cunizza per tornare sulla figura del fratello. Descritto così: da un colle che «non surge molt’alto» (il colle di Romano, nei pressi di Bassano del Grappa, che aveva dato il nome alla famiglia) scese una «facella» (la piccola luce in cui si identifica Ezzelino III) che si ribellò alla «pravità» e «fece a la contrada un grande assalto». Ezzelino non è più un tiranno sanguinario, ma una luce che si rivela nel buio e muove all’attacco contro le infamie del suo tempo. Clamoroso ribaltamento della sua figura. Con una quantità di implicazioni che meritano di essere attentamente trattate. Siamo in presenza di un «groviglio compatto di dati e di temi compreso in appena sette versi», nota l’autore. Sette versi che contengono un rilevante ripensamento. Ma perché questa clamorosa revisione di giudizio?
Tra la fine del 1315 e i primi mesi del 1316, Dante fu esule a Verona alla corte di Cangrande della Scala. Lì lo raggiunse la notizia che il governo di Firenze, invece di riabilitarlo come lui sperava, ne aveva rinnovato, il 15 ottobre, la condanna a morte, estendendola ai suoi ragazzi. Un colpo durissimo, sostiene Cracco, «che significava esilio perpetuo, nonché l’incubo di un sicario prezzolato che in ogni momento poteva rapire o anche direttamente assassinare tanto lui quanto i figli». Era quindi un momento in cui di Cangrande e della sua protezione Dante aveva assoluto bisogno. Dopo la scomparsa del «grande Arrigo» (l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, morto nell’agosto del 1313), dal quale aveva sperato un impegno per la «rigenerazione del mondo», il poeta guardava adesso con speranza al signore di Verona. Nella Lettera a Cangrande, la tredicesima ma anche la più contestata delle sue epistole, avrebbe lasciato intendere le sue proiezioni allorché si era rivolto a lui definendolo «Vicario generale del Sacro Impero dei Cesari nell’urbe di Verona e nella città di Vicenza».
Ma nel dicembre del 1315 da Padova era partito un violento attacco sotto forma letteraria proprio contro Cangrande. Il Comune aveva dato ampia risonanza a Ecerinis, tragedia in latino a imitazione di Seneca di un proprio poeta, Albertino Mussato, dove si puntava l’indice contro Ezzelino con l’evidente intento di colpire il «despota» veronese. Sembrava scritta, secondo Cracco, «per gridare a tutti che un nuovo tiranno non diverso da Ezzelino era alle porte».
La tragedia fu presentata a Padova il 3 dicembre 1315, nel corso di una pubblica e solenne cerimonia organizzata dal Comune, presenti il vescovo della città e il rettore dello Studio. Al termine di questa manifestazione, il Senato di Padova decretò di conferire a Mussato la corona di poeta con edera e mirto e di far leggere ogni Natale in pubblico la tragedia; due maestri di grammatica, Guizzardo di Bologna e Castellano di Bassano, ebbero il compito di redigere un Commento della tragedia. Una cosa del tutto fuori dal comune. Secondo Ezio Raimondi – in Metafora e storia (Aragno) – gli onori resi in quella circostanza a Mussato (pur essendo lui un poeta all’epoca assai celebre, quantomeno nella Marca) rappresentano «l’avvenimento letterario più clamoroso nella cultura veneta di quegli anni». Ed anche una manifestazione politica da parte della città di Padova di estrema ostilità nei confronti di Cangrande, «nuovo Ezzelino».
Sarebbe stato dunque per difendere il suo protettore Cangrande dalle malevoli allusioni contenute nell’Ecerinis, che l’autore della Divina Commedia si era impegnato a riabilitare Ezzelino. Anche a costo di contraddirsi. In che modo? Mussato accusava Cangrande di essere una sorta di erede di Ezzelino e quest’ultimo di avere origini demoniache, di essere figlio di Adeleita e di Lucifero. Una «truce fandonia», l’ha definita un esperto dantista, Manlio Pastore Stocchi in un saggio, Il lume d’esta stella, contenuto in una raccolta fondamentale per orientarsi su questa e altre questioni dantesche: Cento canti per cento anni, pubblicata da Salerno a cura di Enrico Malato e Andrea Mazzucchi. Pastore Stocchi ha ben messo in evidenza i molteplici risvolti di questa vicenda. La leggenda nera delle origini luciferine del da Romano era già apparsa nella Cronica del minorita Salimbene da Parma, secondo il quale, come Gesù aveva voluto in terra «un amico speciale per farlo simile a sé», così «il diavolo volle avere Ezzelino».
Nel 1315, smontare questa leggenda avrebbe prodotto l’eliminazione di un’ombra sinistra sulla figura del signore di Verona. Ma come farlo? E dove? Dante era alle prese con la stesura della terza Cantica della Commedia, il Paradiso, e scelse una via tortuosa ma efficace: quella di «incielare» nel nono canto la sorella di Ezzelino, Cunizza, per farle dire quel che nel frattempo gli era venuto in mente a proposito dell’illustre fratello.
Una scelta singolare, dal momento che, come ha ben spiegato Valter Leonardo Puccetti in Fuga in Paradiso. Storia intertestuale di Cunizza da Romano (Longo editore) la donna, pur non essendo responsabile dei misfatti attribuiti a Ezzelino, gli era sempre stata vicina e lo aveva assecondato in ogni momento della sua esistenza. Ad una sua collocazione in Paradiso ci sarebbe stato l’impedimento determinato dalla «sua vita fin troppo chiacchierata, di donna sfrenata e lasciva, multum venerea», scrive Cracco; «sarà anche accaduto che poi, in età avanzata, magari pentita degli eccessi giovanili, si fosse per così dire redenta dandosi a opere di pietà, ma questo la rendeva al massimo degna di figurare in Purgatorio, non certo in Paradiso».
Dante però non se ne dà preoccupazione, dal momento che la sua collocazione in quella Cantica è, secondo Cracco, «del tutto strumentale alla riabilitazione del fratello». E la Cunizza di Dante attesta che Ezzelino è nato dal suo stesso padre oltre che dalla sua stessa madre («D’una radice nacqui e io ed ella»). Tutto qui? A Cunizza è sufficiente lasciar intendere in modo inequivocabile che Ezzelino, ossia la «facella», era un uomo, un uomo generato da un altro uomo; anzi, un uomo giusto, la cui impresa – il «grande assalto» – «lei era ben lieta di celebrare, da beata tra i beati, là, nel terzo cielo, nel suo Paradiso». Esposizione di cui si fa garante Beatrice con il suo «caro assenso». Dante attribuisce a Ezzelino quel «grande assalto» che, secondo Cracco, non indica «una battaglia cruenta e distruttrice» contro la «terra prava», ma «un atto di rivolta ideale contro il male in essa radicato». Laddove l’impresa è identificata «come azione valida di per sé e anzi gloriosa a prescindere dall’esito». E il termine «grande», che qualifica l’assalto, «non può alludere a forze soverchianti o ad attacchi travolgenti, bensì semplicemente all’alto valore dell’impresa».
Dietro Ezzelino, secondo Cracco, si può scorgere in controluce «il nuovo principe, lo stesso Cangrande della Scala, che ne ricalcava le orme». «Entrambi signori di Verona, entrambi vicari dell’imperatore e insomma uomini “imperiali”, entrambi “facella” capace di irrompere su “quella parte della terra prava” per correggerla e renderla giusta». E perciò degni (quantomeno Ezzelino, l’unico dei due ad essere defunto) del Paradiso. Con l’indiretta esaltazione della figura di Cangrande e uno straordinario capovolgimento di giudizio in funzione di un’appena dissimulata operazione politica.