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 2016  aprile 12 Martedì calendario

Parla un italiano finito nei Panama Papers: «Avevo un’azienda alle Seychelles, ma era nota al Fisco»

Giulio Valiante, napoletano, 53 anni, è uno dei 100 italiani della lista dei Panama Papers.
«Ero al parco quando ho scoperto di essere nei Panama Papers, mi sono dovuto sedere».
Non mi dica che non sapeva di esserci…
«Non ho mai avuto contatti con lo studio Mossack-Fonseca, non ricordo di carte su di loro, non sono mai stato a Panama. Da quel momento mi chiamano tutti per dirmi che gli dispiace. Ma non sono un appestato».
Ma lei aveva una società offshore è corretto?
«Sì, alla Seychelles, la Mercury House Ltd costituita per finanziare la start up italiana JobRapido. Ma è tutto dichiarato dal 2012, dall’anno successivo a quello in cui la società ha iniziato a distribuire utili. Ce ne siamo dimenticati dal 2006 al 2012, ma a tutti gli effetti è una società nota al Fisco».
Avrà qualche sospetto sui Panama Papers, ora non mi dirà che sono apocrifi.
«No è vero: ho dei sospetti. Per costituire quell’unica società offshore mi sono appoggiato a un fiduciario svizzero ma sto ancora tentando di capire».
Torniamo alla società offshore. Lei dice che è tutto noto al Fisco, ma allora perché aveva costituito la società alle Seychelles? Non dica per il mare…
«Siamo nel 2006, Vito Lomele mi parla della sua idea. Mi piace moltissimo. Con gli altri due soci, Alessandro Palmieri e Giovanni Cialella (ambedue nei Panama Papers, ndr) decidiamo di investire 204 mila euro. Uscì fuori l’idea della società offshore perché costava pochissimo ed era plug&play, cioè la aprivi e potevi operare fin dal primo giorno. Voglio dire che quello per me è stato un investimento di “incoscienza” nel senso che Vito mi piaceva ma non ero un uomo ricco, ero un manager di MyTv (in precedenza ero stato a capo del coordinamento della struttura commerciale mondo per la Barilla, dove però avevo resistito solo due anni), 180 mila euro di stipendio. Mettere quei primi 68 mila euro non è stato facile. Avevo una famiglia da sostenere».
Ora la società che fine ha fatto?
«Guardi, nel 2012 io non volevo vendere. JobRapido aveva già ricevuto delle offerte dal gruppo norvegese Schibsted che pubblica SecondaMano. C’erano stati degli abboccamenti anche da parte di un fondo inglese. Poi arrivò il gruppo Dmgt, quello del Daily Mail, e si fece tutto in pochissimo: due settimane».
A quanto avete venduto?
«Il valore d’impresa alla quale ho ceduto le mie quote era di 60 milioni di euro in quel momento. Soldi finiti alle Seychelles. Io avevo due partecipazioni: una diretta, per la quale ricevetti un bonifico, e l’altra tramite la Mercury, dove fu indirizzato il secondo bonifico. La plusvalenza di quell’operazione è stata dichiarata al Fisco. Ma dopo un anno non sapevamo che farcene di quella scatola con solo dei soldi all’interno. Non eravamo riusciti a farla diventare una società di investimento. Abbiamo avuto un’offerta da un importante gruppo olandese. Siamo arrivati nel 2013. Io esco dalla Mercury, società gestita dalla Svizzera. Dal guadagno di JobRapido dovetti sottrarre quello che si prese il fiduciario svizzero, non poco».
Insomma, alla fine non è stata nemmeno conveniente, direi.
«Ripeto era tutto in chiaro. Io non ho mai fatto scudi fiscali né “voluntary disclosure”. Gli altri investimenti sono tutti in Italia. Quell’unico offshore era in chiaro. Vengo da una famiglia di imprenditori napoletani che avevano la legalità nel sangue: quando arrivava una multa mio padre mi diceva subito: devi pagarla».
Dove sono finiti quei soldi?
«La maggior parte su dei conti italiani, una parte in un conto Ubs dichiarato».