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 2016  aprile 12 Martedì calendario

Nella chiesa profanata dove l’Isis amministrava la guerra tra schiave, timbri e ricevute

«Stato Islamico – Repubblica islamica di Damasco – Il giorno 2 del mese di Jumada dell’anno 1437 dopo la nascita del profeta (vale a dire l’11 febbraio, 2016, ndr) – Amministrazione militare – Nel nome di dio clemente e misericordioso, il fratello Abu Aysam viene autorizzato a ricevere 5 litri di gasolio per il generatore dell’ufficio-stampa».
Seguono timbri e firme e un appello finale a impetrare la benedizione divina. Il tutto nello spazio ristretto di un foglietto strappato da un piccolo block notes ma con la precisione burocratica di chi, per dirla con lo slogan che compare dovunque siano passati gli uomini del Califfato, intende «rimanere ed espandersi».
Siamo a El Karyaten un’oasi di verde annegata nel deserto, a metà strada tra Palmira e Damasco, da dove i miliziani del Daesh, come viene chiamato comunemente lo Stato Islamico, sono stati sloggiati pochi giorni fa, dopo aver tenuto in pugno la città per nove mesi. Città multireligiosa, dove cristiani e musulmani sunniti convivevano in pace finché non sono arrivati quelli dell’Is, seminando, a detta del patriarca siriano Ignazio Aphran II, terrore e morte. Uccisi 21 cristiani: mentre tentavano la fuga o per essersi rifiutati di assoggettarsi al nuovo potere.
Snodo cruciale nella lunga linea di comunicazione e rifornimento dell’armata jihadista, El Karyaten proietta la sua influenza strategica tanto verso nord-est in direzione di Deir Ezzor e del confine con l’Iraq, quanto verso ovest, in direzione di Qusayr e del penetrabilissimo confine con il Libano.
Non a caso è qui che lo Stato Islamico aveva stabilito il comando delle operazioni. In un luogo che nessuno avrebbe detto, ma che a fil di logica, seppure la logica perversa della guerra, più adatto, in quanto imprevedibile, non c’era: il convento assiro dedicato alla memoria di Sant’Elian, monaco dai poteri miracolosi vissuto in tempi remoti, specializzato nella guarigione dei malati di mente e per questo molto amato e rispettato nella zona.
Al momento dell’irruzione degli jihadisti nel convento c’erano tre monaci, due dei quali, padre Jihad e padre Jaques Murad vennero subito presi in ostaggio, trasportati a Raqqa, la capitale del Califfato in Siria, e liberati due mesi dopo, si suppone, previo pagamento di un riscatto. Del terzo frate si sono perse le tracce Agli occhi dei guerrieri islamisti il monastero di Sant’Elian, dove vivevano soltanto tre monaci, due dei quali sono stati presi in ostaggio, si prestava egregiamente alla destinazione d’uso che gli avrebbero dato. Non fosse altro perché, non si trattava di una struttura spartana e fatiscente come spesso sono certi conventi orientali, ma, dopo la decisione presa poco prima della guerra dal ministero del Turismo di ingrandirlo, ristrutturalo e integrarlo in un resort destinato al turismo religioso, il convento di Sant’Elian appariva come un luogo comodo e confortevole. Con 18 eleganti stanze, la biblioteca, la sala giochi, un grande living con cucina a vista e un ampio cortile.
Qui il Califfato amministrava la risorse destinate ai seguaci con burocratica precisione. In un angolo della sala principale, in mezzo al caos lasciato dalla fuga precipitosa, ecco i foglietti con cui veniva distribuito ai militanti del Daesh il carburante che ai civili siriani al di là del fronte risulta introvabile: quaranta litri di benzina ad Abu Mansour al Shishani, nome ricorrente tra i foreign fighter. Al Shishani vuol dire letteralmente: “il ceceno”. E ancora, altro foglietto: 70 litri di gasolio ai “fratelli” del ceck-point Muhassan, laddove la strada devia in direzione di Damasco e continua fin quasi alla periferia della capitale. In definitiva non sembra un’armata ricchissima: “Al fratello Abu Fares è consentito riempire il serbatoio della motocicletta adoperata come staffetta per le informazioni”.
Dalle tracce lasciate a Sant’Elian emerge anche che gli jihadisti vivono in uno stato di promiscuità sessuale che, tra l’altro, viola alcuni precetti islamici senza che loro, severissimi quando si tratta di castigare le usanze altrui, se ne curino. Molti viaggiano con al seguito le “spose della Jihad”, destinate a soddisfare i loro appetiti sessuali, o com le schiave Yazide catturate in Iraq e adoperate come merce di scambio tra di loro. Sul tavolo del lavello, accanto a quello che doveva essere l’armadietto della farmacia, sei capsule di Gynod, contro le infiammazioni della flora batterica vaginale. Più in là una confezione di Dlon 100, altro disinfettante dell’apparato sessuale femminile, e scatole di antibiotici dal nome reso incomprensibile.
Pescando nel marasma di oggetti, cibo e forniture abbandonato nella fuga si potrebbe quasi fare un inventario dei paesi sostenitori dell’Is: c’è il riso pachistano, l’acqua minerale turca, i pelati giordani e molti barattoli di piselli di quelli distribuiti dagli enti umanitari delle Nazioni Unite alle popolazioni bisognose. Nel rifugio antiaereo scavato sotto le fondamenta del nuovo resort, chiuso da una tenda di preziosi tappetti, un comodo salotto con molti posti a sedere, alcuni contenitori d’acqua minerale con il dispensatore calda-fredda e, dentro una vetrinetta, un grosso pacco appena aperto di datteri sauditi, come è noto, i più pregiati.
Anche se le bombe siriane hanno colpito duro, l’unico locale distrutto dalle fiamme di un incendio che sembra appiccato di proposito è la chiesa costruita di recente con profusione di marmi e icone andate distrutte. Ma qualcuno, non soddisfatto dello scempio arrecato alla chiesa, è andato a picconare quattro tombe del piccolo cimitero di frati, spaccando le lapidi e, in un caso, esponendo i resti di uno scheletro.
Fuggendo, i miliziani islamisti non hanno tralasciato di portarsi via gran parte della biblioteca, dove – dice Yussef, funzinario del ministero del Turismo venuto da Damasco a fare una stima dei danni – «erano conservati alcuni preziosi testi religiosi della tradizione assira». Ma non sembra che gli ospiti del monastero trasformato in Comando jihadista potessero vantare una grande levatura intellettuale. Modesti anche nel segnalare la loro presenza affidata alle scritte sui muri. Propaganda da quattro soldi: «Qui è stato Abu Omar al Firas». Oppure inutilmente violenti: «Siamo affamati: il cibo più delizioso, la carne dei nostri nemici».