Corriere della Sera, 12 aprile 2016
Macklemore, il rapper bianco
Il rap ha un colore? Negli Stati Uniti è nato dai neri, anzi dai ghetti neri, diventando mezzo e simbolo di rivalsa e riscatto ma anche musica per bianchi e fatta da bianchi. I Beastie Boys a cavallo fra Ottanta e Novanta, Eminem negli anni Zero e ora Macklemore & Ryan Lewis, il duo che nel 2014 ha vinto il Grammy per l’album rap dell’anno con «The Heist», trainato dal tormentone «Thrift Shop», 8 milioni di download solo negli Stati Uniti.
A sentire loro, non se lo meritavano. «Sei stato derubato», avevano twittato a Kendrick Lamar. Non era una furbata per evitare il polemicone «bianchi giù le mani dalla nostra musica». Ancora prima di esplodere, i due di Seattle avevano pubblicato «White Privilege», brano in cui si chiedevano se il rap bianco non fosse una forma di appropriazione o addirittura predoneria culturale.
Diventato una star Macklemore, vero nome Ben Haggerty, non ha smesso di farsi domande. Ha partecipato a una delle marce per i fatti di Ferguson. E per «The Unruly Mess I’ve Made», album uscito a febbraio, ha scritto «White Privilege II» in cui si spinge a dubitare che il proprio successo sia figlio della stessa cultura che permette ai poliziotti bianchi di uccidere senza motivo un nero e restare impuniti. «È stato il nostro contributo a un dibattito che dura da tempo e il modo per coinvolgere il nostro pubblico in quella conversazione», spiega Lewis, la metà che si occupa dei suoni. «In questo periodo sto leggendo Between the World and Me di Ta-Nehisi Coates, lettera a un figlio adolescente sul tema dell’essere nero negli Stati Uniti», aggiunge Macklemore.
Orgogliosamente indipendenti, lavorano ancora con la piccola struttura che hanno messo in piedi al debutto pur appoggiandosi a una major, atteggiamento «conscious» – i loro testi toccano altri temi sensibili come quello dei diritti dei gay – ma anche sensibilità per le hit da classifica e voglia di disimpegno con pezzi solo da ballare. Non è il loro caso quindi, ma l’impegno sembra lentamente sparire dal panorama musicale. «Nella cultura di oggi ci sono molte distrazioni. È più facile fare refresh a Instagram o Snapchat che leggere un articolo. E penso che spesso la gente cerchi nella musica una fuga dal mondo che non si trova in una canzone impegnata», commenta Macklemore. I rapper bianchi, negli Usa si intende, sono ancora minoritari. «Se guardo a Eminem o a Ben – dice Ryan – vedo che hanno più opportunità per via della pelle. Il nostro punto è riconoscere quanto del successo sia dovuto al lavoro duro e quanto alle opportunità dell’essere bianchi».
«Thrift Shop» è stata un tormentone anche da noi. E il concerto dei giorni scorsi al Forum di Assago era sold out da mesi. Pubblico stratificato. Ci sono quelli che arrivano dalla cultura hip hop con cappellino da baseball e canotta da basket, ma anche il bocconiano tipo in camicia a righine e pantalone chinos.
Macklemore ha una lunga storia di dentro e fuori dalle dipendenze. Il successo improvviso lo aveva fatto ripiombare nel tunnel di droga e alcol. Giura di essersi ripulito. Grazie anche alla nascita della figlia Sloane, 11 mesi, avuta dalla fidanzata storica e oggi moglie Tricia Davis. Alla piccola ha dedicato «Growing Up», duetto con Ed Sheeran. «Diventare papà mi ha aiutato. La sveglia è suonata quando ho scoperto che Tricia era incinta e subito dopo mi sono messo in azione. Essere padre non solo ti offre una nuova prospettiva, ma ti dà anche qualcosa di più grande di te per cui vivere. Prendo la vita più seriamente».
La famiglia lo segue in tour anche se «adesso non dormo più come una volta, ma mia moglie non dorme del tutto». È cambiato Mack. Ora prega. «Sono cresciuto con un’educazione religiosa, ma non mi sono iscritto a una religione che si basa su Dio. Preferisco pregare o meditare su una forza, qualcosa di più grande di me che guida l’universo».