La Lettura, 10 aprile 2016
Tutte le malinconie di Gianni Brera in venti agende
Nella prima pagina della sua agenda personale del 1978, Gianni Brera scrive: «Mai e poi mai avrei immaginato di vivere tanto. Pensavo di non toccare i 50». Quell’anno ne compiva cinquantanove ed era già da molti lustri la grande firma che raccontava come nessuno aveva mai fatto la storia del calcio italiano (inventandogli una lingua e un epos). Nelle redazioni il suo stile vantava più tentativi di imitazione di quanti ne vantasse, nella sua pubblicità, «La Settimana Enigmistica».
All’epoca, Brera era columnist del «Giorno», il quotidiano, allora in fase di declino, che aveva rivoluzionato il giornalismo italiano all’epoca del boom economico. Malgrado macinasse decine di cartelle al dì, Brera riusciva a trovare il tempo di tenere queste agende/diario, salvate dall’oblio e dalla dispersione grazie alle cure del figlio Paolo, amoroso custode delle memorie paterne, e ora religiosamente conservate alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano. In quelle pagine Brera scriveva di tutto: meditazioni sulla vita e la morte (come quella citata nell’incipit), rendiconti del bilancio famigliare (dagli onorari televisivi alle ottomila lire spese per l’acquisto di pane secco per i suoi cani, alle mance principesche elargite nei ristoranti che frequentava con assiduità). Erano classiche agende da tavolo, dove Brera segnava visite di amici, orari di partite che doveva coprire per servizio, invocazioni a «Santo Catenaccio», una delle divinità maggiori del suo credo futbolístico, progetti umanitari (come quello di fare da badante all’altissimo e ormai vecchissimo poeta Eugenio Montale).
Gianni Brera si è sempre vissuto come un romanziere mancato. Di non avere scritto i romanzi che aveva sognato di scrivere (oltre al Corpo della ragassa e agli altri pubblicati), dava la colpa al forsennato impegno giornalistico quotidiano (necessario a campare con agio la famiglia). Nelle venti agende custodite alla Fondazione Mondadori (relative al periodo 1972-1991, manca l’ultima, quella del 1992, anno della sua morte per incidente stradale), c’è il romanzo di una vita, ora per ora, giorno per giorno, scritto a tardissima notte prima di addormentarsi. Ne ho letto, grazie alla gentile competenza di Luisa Finocchi, direttrice della Fondazione, e della sua collaboratrice Anna Lisa Cavazzuti, i capitoli legati a due stagioni fatidiche come il 1978 e il 1982, gli anni dei Mondiali di calcio in Argentina e Spagna. Esse raccontano il backstage, la camera oscura (e, a volte, caritatis) di uno straordinario personaggio.
Il primo gennaio 1978, Brera descrive come ha passato l’ultimo dell’anno (cadeva di sabato e si giocava il campionato) nell’amata Monterosso alle Cinque Terre: «Ospito alla Pineta 8 persone + 2 (noi). Rientro alle 3. Mi alzo alle 10. Parto alle 12 (pagato conto 260.000 Pineta…). Arrivo a Milano alle 17. Articolo su Genoa-Vicenza per Giorno. Alle 21,45 Domenica Sportiva».
Per Brera scrivere di calcio era naturale come per Omero scrivere di iliadi e di odissee, ma il direttore del «Giorno», Gaetano Afeltra, vuole che si esibisca anche su altri argomenti. Il 4 gennaio gli chiede un pezzo «su poveretti Motta e Alemagna», le celebri fabbriche dolciarie milanesi che stanno attraversando una brutta crisi. Un emblema della milanesità come Brera – è il ragionamento di Afeltra – non può esimersi dal dire la sua. Brera è combattuto: «Lo vuole per le 18: destinato alla 3ª pagina. Lusingato e seccato... Alle 18 ho finito 5 cartelle abbastanza vibranti di retorica. Alle 18,30 le trasmetto». Brera scrive da casa sua, privilegio delle grandi firme. La mattina dopo si autorecensisce senza sconti: «Esce il Giorno con pezzo su panettone in 3ª pagina. Abbastanza osceno ma patriottico».
Sabato 7 segna sull’agenda: «Dovrei andare alla boxe questa sera». Forse poi diserta il ring perché annota soltanto: «Cena al Riccione e rientro alle 5 con il Giorno, che leggo fino alle 6». Il Riccione, lo storico locale di via Taramelli, è uno dei suoi posti preferiti. Lì si dà appuntamento con gli amici di una vita (Mario e Jucci Soldati, i Morandini, Ottavio e Rosita Missoni). Il clima di quelle riunioni, tra discussioni, giochi, scommesse, stava tra il banchetto luculliano, il simposio accademico, il torneo cavalleresco e la serata di libera uscita.
A differenza di Proust, Brera si corica tardi la sera, spesso è già mattina quando crolla esausto. La notte legge. Di tutto ed è esigente. «Leggo Italia Italia di Nichols, abbastanza generico».
Gli piace la vita di campagna (amava definirsi «principe delle zolle»). Il 15 maggio scrive: «Cagna Artemide partorisce alle 10,30». Gli piace (l’avrete capito) mangiare bene. Ecco un prezioso appunto da gourmet: «Consorzio tutela Gorgonzola Novara 0321 – 26613». Dal produttore al consumatore.
A giugno è in Argentina al seguito degli azzurri di Bearzot (nessuno allora può saperlo, neanche il grande Brera, ma quel torneo sarà la prova generale del favoloso Mondiale dell’82). L’impatto argentino non è dei più incoraggianti. In albergo, «camere sporche, rumore dalla strada». Piove e c’è poco sole. Lo scrittore è di malumore: «Sono meteoropatico e questo clima mi infastidisce». Ed è anche distratto. Non riesce a pensare al calcio. Ha in mente qualcos’altro. Il 2 giugno in una nota contrassegnata da due asterischi (a rimarcarne l’importanza) si legge: «La vera guerra di Troia. Idea». Segue il soggetto per un remake omerico. Paride lascia a Tiro, «in una pensio ne equivoca», Elena. Nella stessa locanda arrivano i Greci in licenza dalla guerra che stanno combattendo a Troia. Quello che succede è facile da immaginare.
Il 3, dopo aver scritto il commento alla vittoria dell’Italia sulla Francia per due a uno, va a dormire munito di tappi per le orecchie. Gli fanno male ma gli permettono di chiudere un po’ gli occhi. Quella notte legge, in onore del Paese che lo ospita, Borges.
Nei giorni seguenti lavora come un matto (sembra un cottimista: «Fatte 6 cartelle», «Fatte 10 cartelle». «Fatte 8 cartelle»), e cura il ménage: «Do a lavare 5 camicie camisas». Si vede spesso con «Titone Stagno», il telecronista dello sbarco sulla Luna, conduttore, allora, della «Domenica Sportiva». Dall’Italia, Stagno gli porta qualche stecca di sigarette. Brera ricambia invitandolo a cena e, nel corso della serata, compie opera maieutica facendosi promettere da Tito «di scrivere libro sui suoi ricordi di radio e telecronista (episodio Papa XXIII e padre Pio straordinari)».
Il 16 giugno la meteoropatia di Brera precipita in ipocondria, peggioramento che gli permette di fare sfoggio della sua conoscenza anatomica (uno dei suoi ferri del mestiere, Brera eccelleva nel racconto del corpo umano in azione). Causa scatenante della crisi ipocondriaca è un incidente di ordinaria cosmesi: «Spuntandomi barba con forbici e pettine faccio scoppiare neo-melaninico sotto giro mandibola a destra (mesosterno-cleido-mastoideo): perdo molto sangue: lo fermo con alcool e cerotti (ce l’avevo!). Se la melanina va in circolo, adios, ci lascio le cuoia e mi spiego le mie molte renitenze di venire acá en Argentina. Ciccia».
Sopravvive e la Nazionale vince con l’Austria 1 a zero. L’analisi di Brera è tacitiana: «Tutto sbagliato da Bearzot. Grande Rossi che fa il gol… Bettega penoso». L’Italia finisce quarta dopo aver giocato il calcio più bello del torneo (molti di quei ragazzi, a partire dal futuro Pablito Rossi, si rifaranno quattro anni dopo in Spagna). Il 27 giugno Brera lascia l’Argentina: «Faccio valigia con aiuto cameriera india segnora Alicia Diaz Dequeipo». Sarà seguita mancia principesca alla segnora, com’era sua abitudine di ex povero.
Il 29 giugno, giorno di San Pietro e Paolo, è a Milano e combina un pasticcio: «Sono così rintronato che non mi accorgo dell’onomastico di Rina e Paolo». Pierina era il nome della moglie, Paolo quello di uno dei figli. «Sera con amici al Riccione. Rina seccata fa il muso: si aspettava invito come giusto. Ma perché non m’ha detto dell’onomastico? Non viene neppure a prendermi».
Quell’estate legge Musil. Va a Lerici alla festa di compleanno (quarantottesimo) dell’editore Mario Spagnol. Ci sono il poeta ermetico Piero Bigongiari, il grande Manlio Cancogni e l’onnipresente Mario Soldati. Brera gioca a scopa con Bigongiari. Non dice chi vince ma la lingua batte dove il dente duole: «Mario Spagnol mi chiede romanzo». La proposta lo gratifica e, nel contempo, gli riapre la ferita narrativa (narcisistica, direbbe Freud) che la cicatrice giornalistica non ha mai fatto del tutto rimarginare.
Poi arriva Franco Vaj, suo amico anche di bisbocce, e fa uno strano discorso. Dato che Brera ha casa a mare a Monterosso, non distante dalla (ex) magione avita di Eugenio Montale, allora 82enne, Vaj gli dà un suggerimento letterario-patriottico-immobiliare: «Mi dice che mio dovere è acquistare villa Montale e ospitarvi il Maestro per tutti gli anni che ha ancora da vivere. Ne riferisco a Rina: mi dice che per quella villa ci vorranno 200 milioni. Che dire? Giocherò al lotto».
Il 1982, l’anno dell’apoteosi professionale di Brera, cantore magistrale dell’impresa mondiale degli azzurri di Bearzot, non comincia sotto buoni auspici (d’altronde i suoi inizi d’anno sono sempre faticosi). Primo gennaio: «Cenato con amici (365 + 20) alla Cambusa… Dom Perignon. Noia. Sono stufo. Voglia di andare foeura di ball». Giorno dopo: «Leggo il mite e rozzo Rigoni Stern (che mi annoia)». L’umore è talmente inverso che ne fa le spese anche uno dei suoi più cari e stimati amici, Gianni Clerici, il grande Scriba del tennis (e non solo): «Leggo Clerici con molto sforzo… Ma se sarò saggio gli dirò che mi sto divertendo assai assai». In realtà è qualcos’altro a guastargli l’umore. Sono i giorni della Merla, tradizionalmente i più freddi dell’anno, e Brera sta provando a scrivere Il mio vescovo e le animalesse, il libro richiestogli da Spagnol. L’impegno lo snerva. Tanto che va a vedere Inter-Catanzaro e, invece di riferirne ai lettori, parla per tutto l’articolo del föhn «caldo e violento» che spira sullo stadio e lo infastidisce (quasi quanto Rigoni Stern). Qualche giorno dopo p rende una «ciucca omerica al Riccione» e, rincasando alle due di notte, striscia la fiancata della macchina in garage. L’incidente è minimo, ma lui ne è molto turbato.
Solo il 23 febbraio Brera trova il coraggio di confessare a se stesso il motivo vero della sua inquietudine e che non è il romanzo da scrivere per Spagnol. Brera si trova a Parigi insieme al Commodoro Ballarin (un amico, uno dei personaggi fissi della sua personale commedia umana: come Lady Erminia Real, la moglie del vecchio presidente dell’Inter Angelo Moratti, o Giannola Nonino, la regina della grappa), per seguire Francia-Italia quando scopre con orrore che gli hanno fatto le scarpe. Non è più lui la prima firma del «Giornale» (il quotidiano di Indro Montanelli a cui è passato dopo «Il Giorno»). Scrive sull’agenda: «Non sono entusiasta di fare da spalla a Caruso. Do a braccio una manciatina di banali cose». Caruso è Alfio Caruso, all’epoca al «Giornale».
Brera mette subito le carte in tavola con il direttore: «Telefono a Montanelli e gli dico abbastanza duramente che non farò più la spalla di Caruso». Montanelli è sorpreso (recita a soggetto?). Brera annota: «Mi sento alleggerito di un peso greve: mi stavo troppo umiliando». Lui, GioanBrerafucarlo, come amava patronimicamente sottoscriversi, è, sin «dal lontano ’49», sempre stato «prima firma e primo cantante».
Alla notizia che Brera molla «Il Giornale», si scatena la campagna acquisti. Guglielmo Zucconi lo implora di tornare al «Giorno»: «Sei un Pavarotti padano devi cantare nel tuo teatro, non alla Piccola Scala». Willy Molco, amico di Brera, va da Gaspare Barbiellini Amidei a dire che Brera è disponibile per il «Corriere». Il 2 marzo si fa viva «Repubblica»: «Alle ore 13 mi telefona Scalfari e mi dice che un piccione viaggiatore gli ha portato una notizia da Parigi: e se voglio andare con lui alla Repubblica. Dico: Grazie!».
Il piccione viaggiatore evocato da Scalfari è Mario Sconcerti, oggi prima firma e primo cantante di calcio tra «Corriere» e Sky, allora capo dello sport a «Repubblica». Fu lui il primo a intuire che l’amore tra Brera e Montanelli era finito.
Intanto il giornalista ha dato le dimissioni dal «Giornale» nelle mani di Fedele Confalonieri (l’amico Fidel di tanti suoi pezzi), dominus del quotidiano: «3 marzo. Ore 13: colazione con Fedele Confalonieri del tutto inutile. Accettate mie dimissioni con certo sollievo, anche se gli spiace… per impaccio di fronte ai lettori. Detto a Fidel: non vi querelo per giusta causa se mi liquidate regolarmente. Lui dice: d’accordo. Ma è il 2 di picche».
A Brera brucia quel trattamento senza riguardo. A parte Montanelli, lui è la firma più amata del «Giornale». A chiamarlo in quei giorni c’è anche un collega con cui ha fondato la leggenda del «Giorno»: «Alle 14 mi telefona Giorgio Bocca a nome di Scalfari perché vada a Repubblica. Lui me lo consiglia. Faccio riserve sulla quasi totale mancanza di cronaca. “E dove sono più i cronisti?!” lui dice. Poi, mi raccomanda di chiedere di non dover dipendere da quelli dello sport che sono mentecatti. Dico: “Non lo è Sconcerti”».
C’è un tentativo in extremis anche da Torino. Se ne fanno mallevadori Pilade (vecchio amico di Brera, una specie di suo angelo custode) e Oreste Del Buono: «Pilade dice che Fattori mi offre La Stampa attraverso fratello Oreste. Scrivere grazie a Fattori. No puedo».
Brera sceglie «Repubblica» e sin dal suo esordio si vede che la sua presenza cambia lo stile del giornale. In data 19 marzo, Brera segna sull’agenda il suo debutto. «Sono 9 cartelle, non egregie ma mi telefona alle 20 Mario Sconcerti per dirmi: “C’est du bon Brera”; e che per merito mio per la prima volta da che è nata Repubblica sarà domani in prima pagina la foto di un calciatore (Antognoni, I suppose)».
Ora Brera è libero di tornare alla sua vita di sempre, alle sue scrupolose recensioni notturne («Leggo un Perry Mason che mi lascia freddo per sua totale mancanza di preparazione psicologica»), al suo tormentato romanzo. Questa volta a fare la parte del recensore non è lui ma suo figlio Carlo, ottimo traduttore di Tom Sharpe, che, proprio quell’anno, debutta in narrativa con un romanzo sul cui titolo ( La fortunata mattina di un venditore di libri senza padre ) Freud avrebbe avuto da ricamare. Carlo è sincero (era un bravissimo ragazzo) e fa a pezzi il manoscritto del Mio vescovo e le animalesse. Brera annota: «Carlo mi parla dei molti difetti del mio romanzo. Bravo. Gli sono grato. Non seguirò i suoi consigli».
I mondiali di calcio si avvicinano. Brera fa coppia con Sconcerti. Il 12 aprile vanno a Lipsia per una trasferta degli azzurri. Si imbarcano a Malpensa «su un Tupolev… bellico, spartano», scrive Brera, con il suo occhio esperto da ex paracadutista. L’amicizia con Sconcerti si approfondisce, scopre che il Navarro (come lo chiamerà a partire proprio dalle cronache di Spagna) è «molto appassionato di storia (grata sorpresa)».
L’acclimatamento al Mundial è, come sempre, difficile. L’8 giugno dal nord della Spagna Brera annota sull’agenda: «Fa un freddo boia a Vigo ed io non sono attrezzato e prendo raffreddore». La solita meteoropatia, che lo aveva colpito già in Argentina. Poi i ritmi e i riti del torneo prendono il sopravvento. Brera incontra il mister Bearzot (allora l’uomo più contestato d’Italia) e gli regala una pipa Brebbia. Gioca lunghe partite con Mario Soldati (grande teorico e pratico dello scopone scientifico, un discepolo del grande Chitarrella, il Churchill di quel difficile gioco) e lo batte (con malcelata soddisfazione che trapela anche dai nudi appunti dell’agenda). Poi va al Neptuno e festeggia mangiandosi 12 ostriche. Il 13 giugno Brera fa il suo primo pronostico sul Mondiale e dà il Belgio in finale (non ci andrà). La sera offre la cena, come da consuetudine, a Soldati. Tornato in albergo, sbotta sul diario: «es la ultima vez!».
Il torneo degli azzurri entra nel vivo (si fa per dire). 18 giugno: «Assisto a Italia-Perù 1-1. Secondo tempo penoso dei nostri prodi». Due giorni dopo gli ritorna lo spleen da meteoropatia: «Vigo. Piove. Malinconia. Niente da fare. Musiche fastidiose nei dintorni. Ancora qui per 25 giorni. Che barba, ohi». L’indomani è una giornata campale, Brera scrive 18 cartelle. «Sono distrutto. Decido emborracharme». Il 23 la Nazionale pareggia uno a uno con il Camerun. Brera quasi non ha parole: «Italia passa il turno penosam.te». Nessuno scommetterebbe una peseta sulla squadra di Bearzot al centro di polemiche con i giornalisti (e silenzio stampa per ripicca da parte dei giocatori). Brera si consola come può di un Mundial che non sembra volerci bene. «Bevuta greve. Così festeggio San Giovanni». Va a letto alle 5,30 del mattino del 24, «ciucco». Dimentica di prendere le medicine che deve prendere e si sveglia malissimo. La moglie lo chiama per dargli gli auguri di buon onomastico, ma lui risponde come uno che è in coma. Torna a letto. Stenografa: «Leggo Lazarillo de T.».
Il giorno dopo è al Majestic di Barcellona che non lo entusiasma. «Fa freddo al bar dove non andrò più; riduco il freddo in camera portando il termometro sui 23°-25°. Si sente il rumore della strada. Dormirò poco». L’umore non migliora durante la giornata, anzi. La sera va in «una orribile cafeteria» con Soldati (ultima vez?) e Cancogni. Il giorno dopo lo passa al museo Picasso e gli piace, così come apprezza la chiesa gotica di Santa Maria del Mar. Il 27 è di nuovo a cena con Soldati («insopportabile più di sempre») e con Manlio Cancogni, che non gli può dare manforte contro l’incontenibile Soldati perché ha perso la voce a causa del freddo. Sono tre tra le più fantastiche penne d’Italia e sembrano perse in un incubo fatto di brutto tempo, brutto calcio, brutti ristoranti.
Tutto (rendimento degli azzurri, tempo atmosferico, umore del narratore) cambia improvvisamente il 5 luglio ed è come se qualcuno spalancasse di colpo la finestra. «Sole caldo. Brasile-Italia (Gesù). Vince l’Italia 3-2 (2-1). Perdo la scommessa e debbo portare il saio… a una processione (San Burtlamé il 24 agosto). Mi aspettavo un 1-5; se invece vince l’Italia, ho scritto, mi vesto da battù». La promessa autoflagellazione non è sufficiente. Il giorno dopo Brera che come tutti (a parte, forse, Bearzot) non ha creduto negli azzurri deve espiare ancora. «Scrivo 7 cartelle per spiegare (mi esorta grottescam. Scalfari E., che peraltro mi elogia assai) come mai una squadra racchia può cambiare come l’Italia. Trasmetto alle 18,15. Fa un caldo boia».
Afa anche il giorno dopo, 7 luglio. «Hace un calor bribon. (Bribon II è anche la barca sulla quale regata Juan Carlos). Scrivo presentazione Italia-Polonia di domani al Nou Camp. Prevedo pessima partita perché Italia non sa far gioco bensì contro-gioco». È il Brera di sempre con le sue teorie contropiedistiche e difensivistiche. L’Italia vince con due gol di Rossi, «el hombre del partido», ma la partita, secondo Brera, è pessima. La sera cena sul paseo de Gracias, l’Italia è in finale. Mancano quattro giorni all’ora X. Comincia il conto alla rovescia. Il primo di questi giorni Brera vola, «con la squadra azzurra (pienza a l’emocion)», su un vetusto Dc8 da Barcellona a Madrid, dove si disputerà la partita decisiva. È inquieto, diffida della Germania, l’altra finalista. Ma diffida soprattutto dell’Italia: «Porque no sabemos jugar». Per calmarsi legge Tacito, «bebendo whisky». Il secondo giorno appunta: «Dato titolo: Chiediamo la grazia a Santo Catenaccio». Il giorno di vigilia cerca di ingannare il tempo. Vede Soldati che si lagna per aver passato la serata precedente con Gazzaniga (Gian Maria, il giornalista del «Giorno» che aveva preso il posto di Brera e cercava vanamente di brereggiare). Le lamentele di Soldati divertono Brera ma il pensiero è altrove: «Bevo cognac per alleviare comocion cardiaca dovuta alla finale».
Finalmente arriva il grande giorno. Così lo sintetizza Brera sull’agenda: «Veni vidi Rossi. Recuerdo de España 82. Italia tri-campeon mundial. Bearzot difensivista ad honorem». Da quegli appunti prenderà il via quel pezzo indimenticabile sulla vittoria azzurra che tutti gli italiani dovrebbero imparare a memoria, a partire dall’incipit: «Io triumphe, avventurata Italia!».