La Lettura, 10 aprile 2016
Ancora su Alan Turing
All’inizio dell’estate del 1954, il ritrovamento di un corpo senza vita, in un appartamento della città inglese di Wilmslow, pone all’ispettore Corell un problema inaspettatamente complesso. Incaricato di ricostruire la vicenda che ha portato alla morte di Alan Turing, giovane e brillante matematico condannato alla castrazione chimica per omosessualità, Corell è combattuto fra i pregiudizi omofobici tipici del tempo (e ancora non sopiti) e la curiosità per la natura delle ricerche di Turing. Si interroga in particolare su un paradosso che aveva assorbito per anni l’attenzione del matematico: il paradosso (o, più correttamente, l’antinomia) del mentitore. «Io mento»: una frase che nega sé stessa, che si spaccia per falsa e che proprio per questo è vera – una contraddizione interna che, osserva il protagonista del romanzo di David Lagercrantz La caduta di un uomo, «rende il concetto di verità vano o, per così dire, lo mette temporaneamente fuori uso».
Fra tutte le scienze, la matematica è quella che più si occupa della verità. Lo scopo di una dimostrazione è trasmettere la verità delle premesse alla conclusione, o giustificare la conclusione alla luce di un certo numero di assunzioni: forse si tratta di proposizioni astratte, che poco hanno a che fare con il mondo di tutti i giorni, ma quelle della matematica sono comunque asserzioni vere, perché dimostrate. In anni in cui la fisica opponeva al determinismo laplaciano le «strane» conseguenze della teoria dei quanti – con particelle distinte che rimangono indissolubilmente correlate fra loro anche a enormi distanze, e principi che stabiliscono un limite alla determinazione dei valori di grandezze coniugate – la matematica pretendeva ancora di dire la verità. Forse non tutta, la verità; ma almeno nient’altro che la verità.
Fra i più influenti matematici del tempo, David Hilbert era pronto a giurarlo. Nel 1928 invitò i colleghi a rispondere a tre domande: la matematica è completa? È coerente? È decidibile? Detto altrimenti: ogni enunciato prodotto dalla matematica può essere dimostrato vero, oppure confutato? Si può dimostrare che un enunciato contraddittorio non può mai essere ricavato attraverso una procedura valida? E dato un sistema assiomatico e una proposizione scelta arbitrariamente, esiste una procedura che consenta di determinare se tale proposizione sia vera o falsa all’interno del sistema? Hilbert era convinto che fosse possibile rispondere di sì a tutte e tre le domande. Da buon matematico, tuttavia, voleva conoscere la risposta con certezza.
Già nel 1931, tuttavia, Kurt Gödel fornì una prova straordinariamente elegante dell’incompletezza della matematica. Più tardi, Turing decise di concentrarsi sulla decidibilità: si domandò se fosse possibile immaginare una procedura meccanica che consentisse di dimostrare una qualunque proposizione matematica. E si chiese, a tal fine, che cosa fosse di preciso una procedura meccanica, e che cosa fosse una macchina in grado di eseguirla. Per Turing, una macchina è un oggetto in grado di manipolare simboli in accordo con un determinato insieme di regole. Non importa se si tratti di giocare a scacchi, tradurre ideogrammi o cercare numeri primi: in ognuno di questi casi, il problema è quello di stilare un certo numero di regole che, introdotte in una macchina in grado di eseguirle grazie a un codice, le consentano di svolgere una qualunque attività. Oggi i concetti di hardware e software sono di dominio comune, ma in quegli anni la questione passò quasi inosservata: tutti si concentrarono sulla dimostrazione formale dell’impossibilità di costruire una macchina in grado di «decidere» tutti i problemi matematici; sfuggì, invece, il risultato conseguito nel tentativo di giungere a tale dimostrazione, cioè la definizione rigorosa di macchina calcolatrice, o computer.
Alcuni risero di Turing: solo uno stupido, si disse, può pensare che i matematici facciano le loro scoperte accendendo una macchina miracolosa. Ma Turing, nelle parole di Corell, «non era un matematico serio; non in quel senso, almeno. Manteneva intatto il suo candore, ed essere ingenui e geniali è una combinazione felice».