Libero, 10 aprile 2016
Piano piano gli italiani stanno imparando anche a bere bene
Che lo show abbia inizio! Si parte stamani con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che taglia alle 11 il nastro del Vinitaly numero 50. Verona diventa fino al 13 la capitale d’Italia. Mai come quest’anno arriveranno tanti politici (Matteo Renzi domani e proverà a convincere in un faccia a faccia Jack-Ma, il boss del vino cinese con il fondo Alibaba a investire in Italia, poi i ministri agricoli d’Europa il 13 e in quattro giorni è atteso mezzo governo). Il motivo? Il vino tira ed è uno dei (pochi) primati d’Italia. Certo l’export ma, sorpresa, ripiglia anche la domanda interna. È vero che siamo arrivati a 35 litri a testa e che i consumatori abituali non vanno oltre i tre milioni, ma c’è una platea di 35 milioni d’italiani disposti a spendere per bere bene. Ormai metà della domanda è fatta da vini a denominazione e se ne sono accorti quelli dei supermercati che vendono all’incirca tre bottiglie su cinque per 1,7 miliardi. Gli italiani hanno comprato un po’ di più premiando i grandi rossi (dal Barolo al Chianti Classico, dal Brunello all’Amarone, dal Sagrantino di Montefalco al Montepulciano d’Abruzzo), ma ad emergere sono i bianchi soprattutto il Verdicchio delle Marche, seguito dai friulani e il vero boom è quello degli spumanti (tanto Prosecco, ma non solo) che segnano un più 6% di vendite. Un discorso a parte meritano i vini bio, che gli italiani osservano, assaggiano, ma è ancora un mercato di nicchia pur in crescita. Resta l’abitudine consolidata di bere secondo territorio. E cioè: regione che vai, vino che trovi con Piemonte, Toscana, Veneto e Friuli protagoniste, l’emergere di Marche, Umbria e Puglia come nuove terre del vino e Sicilia e Sardegna come giacimenti di qualità. La Lombardia si conferma come la regione a più alta propensione d’acquisto – anche se i bevitori più assidui sono marchigiani e veneti – e a maggior valore aggiunto per i suoi vini (Oltrepò, Franciacorta, Valtellina). Un’incognita sono i giovani. In America a tirare il consumo del vino (e gli Usa bevono tantissima Italia) sono i millenials, da noi i ragazzi hanno perso l’abitudine al vino e tuttavia lo considerano ancora un piacere. Non lo frequentano con assiduità, ma ne sono incuriositi: chiedono solo che si parli loro del vino con un linguaggio contemporaneo. Un’opera di riacculturazione al vino (insegnare la civiltà della vite nelle scuole?) è auspicabile. Altrimenti finisce che i clienti delle cantine sono in Italia le donne (diventate consumatrici esperte e raffinate) e gli over 40. Le donne sono attratte dai rossi di pregio, mentre gli uomini fanno scauting: sono alla ricerca del vino novità e stanno attenti al prezzo. Ci siamo trasformati da popolo di bevitori a popolo di degustatori, anche se in fatto di vino la cultura ancora scarseggia. Altro tasto dolente è il rapporto con la gastronomia. Se la cucina tira, al ristorante si beve molto meno vino e soprattutto non ci sono tavole (a parte le stellate) dove cucina e vino vadano a braccetto in una proposta di stile di vita, di sano piacere.
La proposta di vini a bicchiere diventa decisiva. Per bere cosa? Le etichette di pregio o le piccole cantine: chi sta nel mezzo fa fatica a farsi scegliere. Una cosa è sicura: gli spumanti sono i vini del momento, con una forte ripresa dei bianchi e un ritorno dei passiti usati come vini da compagna (in cima al gradimento Moscato di Pantelleria e Marsala). Così la bottiglia finisce per essere una frequentazione domestica oppure d’intrattenimento non necessariamente legata al cibo. È il mondo che va al contrario: lo bevevano così gli americani, noi abbiamo insegnato loro a degustarlo alla nostra maniera e il mercato Usa è esploso. Chissà che anche in un Vinitaly molto 2.0 non ci convegna tornare alle origini? Anche perché il vino fa bene all’economia italiana. Lo racconta Mediobanca che spiega come in quindici anni l’indice mondiale di Borsa del vino sia cresciuto del 449% mentre le altre Borse si sono accontentate di un modesto più 89%. Nel 2015, il fatturato delle cantine è aumentato del 4,8%, mentre le industrie segnano un meno 2,6% e quelle del food una flessione dello 0,8%. Egualmente sul fronte degli investimenti – le cantine più 18%, le industrie dieci volte meno – e dell’occupazione, con un più 3% tra le vigne. Ci si accapiglia tanto sul petrolio della val d’Agri, ma va a finire che il petrolio lucano si chiama Aglianico (un grandissimo rosso). Aveva ragione Gianni Agnelli (altri tempi, ahinoi!): l’investimento in vino conviene comunque; mal che vada te lo bevi. riproduzione riservata