Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2016
Quando Flaiano riscrisse l’Amleto
C’è, tra quelli di cui si continua a parlare ancora oggi, chi non ha mai scritto una riga: come Socrate o come lo stesso Messia; e chi, invece, pur avendoci lasciato cose importanti – come Omero, che però, forse, era il nome di una dinastia di poeti con la cetra – può benissimo darsi che non sia mai nemmeno esistito. E c’è chi, ancora, deve essere stato qualcuno, perché quello che ha scritto lo si riconosce dallo stile, e tuttavia, come nel caso di Shakespeare, non si sa bene chi fosse. Resta il fatto che questo Shakespeare è morto – si dice – giusto 400 anni fa, il mese di aprile.
Di Shakespeare sopravvivono i personaggi, che erano comunque – almeno i più importanti – nati prima di lui, cioè presenti in altre trame da lui rivalutate. E tra questi personaggi c’è Amleto, il quale continua a risorgere nella coscienza degli spettatori anche dopo la morte nel quinto atto della tragedia; talché, per andare sul sicuro, sono stati in molti, e non solo attori, registi e registi cinematografici, a ripercorrerne la storia, ciascuno a suo modo, in drammi, poesie, racconti e parodie: da Laforgue a Pasternak, da Vladimír Holan a Bacchelli, da Bertolt Brecht a Tom Stoppard, da Achille Campanile a Petrolini («Io sono il pallido prence danese | che parla solo, che veste a nero. | Che si diverte nelle contese, che per diporto va al cimitero») e da Carmelo Bene a Giovanni Testori.
Sapevo anche di una farsa di Ennio Flaiano, intitolata Amleto ’43 e ambientata in una Danimarca che ovviamente, come quella di Shakespeare, non è la Danimarca; ma non sapevo che, qualche mese prima, Flaiano avesse tradotto l’Amleto di Laforgue. Ora, poiché non tutti i centenari vengono per nuocere, Angelo Righetti che è un collega ma anche un bibliofilo – anzi: uno che i libri non solo li colleziona, ma li legge e li fa leggere –, sapendomi un cultore di Flaiano, mi ha fatto avere un prezioso pezzo d’antiquariato: il volumetto in 32°, cioè grande quanto un mazzo di carte da gioco, proprio del racconto postumo (1887) di Laforgue, tradotto da Flaiano, che si intitola Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale (Documento, Libraio Editore, Roma, 1944).
È un’opera, questa di Laforgue, che si trova facilmente anche in un’altra versione, quella del poeta Nelo Risi, nel volume delle Moralità leggendarie pubblicate da Garzanti nel 1998; ma l’interesse della trouvaille inviatami da Angelo Righetti sta nel fatto che conferma la singolarità del carattere di Flaiano, il quale in quegli anni – gli anni della guerra – cominciava a essere quel che è sempre stato. Un personaggio “amletico”, ovvero un moralista classico alla Rochefoucauld o alla Chamfort o, anche, alla Jules Renard, mascherato da “battutista” del varietà. Uno scrittore che avrebbe sempre avuto un occhio «al pallido prence» e l’altro occhio al Pierrot lunare di Laforgue, che proprio attraverso di lui sarebbe trasmigrato, ingentilendoli, nei ruspanti pagliacci di Federico Fellini.
Non solo. È guardando fuori dalla finestra del castello di Elsinore, sopra il marciume del giardino di Laforgue, e là dove si accumula «la schiuma dei rifiuti che infracidisce sulla riva di una cala stagnante» e dove «le flottiglie dei cigni reali dall’ironico sguardo non fanno quasi scalo» mentre salgono «dal fondo melmoso di antichi pacchi d’erba» i cori di vecchie coppie di rospi, simili a «rantoli espettorati da catarrosi vegliardi», che possiamo intravvedere lo spunto – il «correlativo oggettivo», direbbe T. S. Eliot, un altro allievo importante di Laforgue – che sarà in seguito ripreso da Fellini, probabilmente ancora attraverso Flaiano, nel finale di La dolce vita (1960).
Scrive amleticamente Flaiano a metà degli anni ’50: «È la fine, sono già maturo per finirla con questa vita che è stata un seguito di sbagli, di esaurimenti nervosi, di guai. Finirla. Ma non ne sarò capace, lascerò fare al tempo, aspettando la vecchiaia, il gran catarro, le cacarelle, i colpi. Diventerò avaro, sospettoso, indeciso, cattivo e sempre più annoiato. Odierò i giovani, il chiasso, la luce. Ma Roma, soprattutto».
L’Amleto di Laforgue è bizzarramente ambientato nel 1601, l’anno della pubblicazione dell’Amleto di Shakespeare, e il giorno è il 14 luglio, che – parbleu! – è una data in cui non è accaduto nulla di memorabile né in Inghilterra né in Danimarca. Ma poiché questo nostro mondo, e quello di Laforgue, è, come si sa, fuori di sesto in tutti i sensi, il famoso monologo dell’«essere o non essere» diventa un becero «avere o non avere»; gli anacronismi si assommano, i personaggi si sdoppiano, Amleto non risulta figlio di sua madre ma di una zingara e pertanto fratellastro di Yorick, il defunto buffone di corte. Davanti ai nostri occhi trascorre una fantasmagoria di nomi e di personaggi, quelli presenti nel racconto e quelli che sono soltanto evocati e che appartengono ad epoche diverse o ad altra opera dello stesso Shakespeare, insieme a un filosofo che nel 1601 ancora non aveva scritto nulla, a un pittore francese contemporaneo di Napoleone e a un attor giovane cui Amleto offre delle sigarette turche e che si chiama William, nientemeno; così come l’attrice destinata a interpretare la parte di Geruta, la madre-che-non-è-la-madre del pallido principe, si chiama Ofelia e, una volta ribattezzata col nome di Kate, diviene la nuova fidanzata dello stesso Amleto.
È follia, quella dell’opera di Laforgue, ma c’è del metodo. Attraverso il susseguirsi di nomi e di immagini tenute insieme da associazioni gratuite, si viene a creare quel teatro della mente in cui sia la storia sia la logica si appiattiscono per aprire la strada a una forma di conoscenza – la poesia – che, come i sogni, non è reale ma è rivelatoria. E Flaiano, cereo reduce della guerra d’Etiopia e prigioniero di una Roma che non è ancora una «città aperta», rispecchiandosi in Laforgue, scopre che certe verità eterne, per essere intellegibili nel tempo, bisogna tradurle nel linguaggio intermittente di quella che i sani vedono appunto come follia.