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 2016  aprile 10 Domenica calendario

Il corpo e la retorica

Secondo Valerio Massimo, fu Popilio Lenate a decapitare Cicerone il 7 dicembre del 43 a.C., quando l’oratore era ormai caduto in disgrazia. Ma non si accontentò di «recidere il capo dell’eloquenza romana», volle addirittura tagliargli la mano destra, un gesto orribile che mortificava pubblicamente quell’eloquenza elegante che aveva lottato fino all’ultimo per la salvezza della Res publica. La mano di Cicerone diviene il simbolo del solido legame tra l’eloquenza romana e l’azione politica.
Da un discorso poteva dipendere la sorte dello Stato.
Come sostiene Roberta Martina Zagarella, nel suo saggio La dimensione personale dell’argomentazione, di cui si è già occupata su queste pagine Cinzia Caporale il 3 gennaio scorso, l’idea che oggi prevale sulla retorica è quella che la vede “scorporata”, separata dalla fisicità di chi la pratica. La retorica così si fonda su un’idea di razionalità che considera fallace ogni ricorso all’emozione e al carattere personale nell’argomentazione. Il quale è invece fondamentale se la di studia da un punto di vista antropologico.
L’uomo, come aveva ben capito Aristotele, è animale tanto politico quanto retorico, la sua vita sociale è influenzata dai punti di vista, dalle emozioni e dai valori espressi dalle parole degli altri, ed egli stesso è capace di influenzare a sua volta i punti di vista e le emozioni degli altri con i discorsi.
La parola deve essere calata nell’emozione del singolo che la pronuncia e dell’uditorio che l’ascolta, il discorso deve rispecchiare i caratteri, le tensioni, le atmosfere della realtà che rappresenta. Altrimenti perde di efficacia. La persuasività è un tratto antropologico fondamentale della specie umana e l’argomentazione è la sua massima espressione.
Ma per argomentare in maniera persuasiva non basta esprimere un ragionamento strettamente logico-razionale, oggettivo ed evidente, esternato in una veste formale privata di qualsiasi colore emotivo. Il campo dell’argomentazione è quello dell’azione, è quello dell’incertezza, ed è in questo campo che la soggettività di chi parla determina la definizione di una “verità”: «È la natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione a opporsi alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né si argomenta contro l’evidenza». Pensare a un’argomentazione privata di ogni carattere o emotivo o soggettivo – considerati fallaci proprio in quanto soggettivo ed emotivo -, significa assumere una concezione assai ristretta di razionalità. Per questo Zagarella sottolinea la linea di continuità tra emozione e giudizio: è ingenuo ritenere che i giudizi si formulino senza emozioni, dal momento che ogni giorno facciamo esperienza di come si prendano decisioni proprio perché siamo emotivamente influenzati da qualcuno o da una situazione che ci persuade. Di grande attualità sono, in tal senso, le nozioni aristoteliche di pathos e di ethos. In particolare quest’ultimo, l’ethos, è il «carattere» che il discorso emana e che lo rende capace di conquistarsi la fiducia dell’uditorio. È la fiducia la condizione antropologica della persuasione. Viviamo immersi in un sistema di credenze cui abbiamo dato, consapevolmente o meno, la nostra fiducia, e siamo disposti a modificarle, rivolgendo la nostra fiducia a chi ci convincerà. La retorica, dunque, è tutta una questione di fiducia. «L’argomentazione mira a risolvere una differenza di opinioni o un disaccordo, in situazioni retoriche in cui i punti di vista sono incommensurabili. Ma l’accordo non è solo il fine del processo argomentativo; è anche il punto di partenza preliminare: affinché chi parla risulti credibile è necessario che si adatti allo sfondo condiviso dal suo uditorio». Anche quando l’argomentazione è tesa a metterlo in discussione. Il discorso retorico si muove all’interno di quel campo di tensioni che Aristotele definisce «sinestesia» (synaisthesis), ovvero quel “sentire comune” – da qui la nozione di senso comune – nel quale vive e del quale si nutre chiunque della comunità parli o ascolti. Un discorso che non tenga conto di questo sentire comune, che non esprima le emozioni dell’oratore e non rispecchi il clima di valori e sentimenti dell’uditorio, è un discorso che non potrà mai avere presa sulla realtà, né modificarla alla luce di nuove verità. La vera retorica – e gli uccisori di Cicerone lo sapevano bene – non può non avere un corpo che agisce.