Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 10 Domenica calendario

Il lavoro delle donne che rivoluzionò l’economia nel mondo

«Le strade, anche le migliori, sono strette e tortuose(…) Ovunque vi fosse un pezzetto di spazio si è continuato a costruire e a rappezzare, fino a togliere dalle case anche l’ultimo pollice di terra libera suscettibile di essere utilizzata». È in questo tipo di quartieri, descritto da Friedrich Engels, che gli operai vivevano nell’Inghilterra della prima metà del XIX secolo. Qui i bambini giocavano in strade percorse dai liquami delle latrine e dai residui delle piccole fabbriche sparse in mezzo a questi quartieri. Naturalmente giocavano per pochi anni, perché appena compivano i 6 entravano in fabbrica, o in miniera, nonostante la legge ne proibisse il lavoro prima degli 8 anni. A volte sostituivano le mamme. Perché le donne dopo avere lavorato fino all’età del matrimonio, che era intorno ai 25 anni, si sposavano e spesso lasciavano il lavoro.
La prima rivoluzione industriale inglese si compie tra il 1760 e il 1830, e trasforma radicalmente il concetto di lavoro. La fatica umana non è più il parametro per calcolare la produzione: la macchina è infaticabile e il lavoro diventa continuo. Il tempo della vita non è più segnato dal giorno o dalla notte, ma solo dal tempo meccanico dell’orologio. Ed è proprio sul tempo che, allora come oggi, si misura la fatica della donna. Che l’età del matrimonio fosse alta in quel tempo, come afferma la ricerca di cui parla l’articolo a fianco, o si abbassasse a 23 anni già nei primi tempi della rivoluzione industriale, non cambia per nulla la condizione della donna destinata comunque a lavorare, in casa o fuori. La storia non ha mai tenuto conto nel passato, e poco anche oggi, del lato femminile della vita quotidiana, di quello che le donne hanno costruito con la loro fatica e il loro “saper fare”. La sapienza del lavoro femminile non è stata ancora valorizzata. 
Quando si parla di donne e rivoluzione si ricorre all’immagine di migliaia di lavoratrici, sottoposte a ritmi di lavoro estenuanti, a turni continui, senza alcuna forma di tutela e preferite alla manodopera maschile perché pagate molto di meno, e più docili. È vero, le operaie erano sfruttate, ma al tempo stesso si andava compiendo quella che Jan de Vries ha definito una “rivoluzione industriosa”: un numero crescente di donne guadagnava e anche se i redditi erano bassi, poteva spendere e aumentare i consumi. Non fabbricava in casa candele di sego o piatti di giunco, non impastava il pane o tesseva filati, semplicemente li comperava. Per ricominciare una produzione casalinga sposandosi e lasciando il lavoro. Ma il profondo cambiamento non era centrato solo nella condizione economica: l’impatto della rivoluzione industriale segnò l’emergere di un diverso rapporto tra uomini e donne, influenzò i costumi e il tempo libero e le donne, anche qui in primo piano nell’evolversi dei cambiamenti, sono però dimenticate dalla storia. Come diceva Catherine, l’eroina di «Northanger Abbey» di Jane Austen: «Quanto alla storia vera e propria, la storia seria e solenne, non riesco a trovarla interessante (…) Gli uomini in genere sono dei buoni a nulla e le donne, praticamente, non ci sono mai: è una noia terribile». Si può rendere la storia meno noiosa: cambiamo le prospettive in cui si colloca la ricerca storica e inseriamo i soggetti femminili, ne può emergere un quadro ben diverso.