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 2016  aprile 10 Domenica calendario

Adottare una pecora per degustare un Montebore, la toma che faceva impazzire Leonardo

Al nobile banchetto nuziale di Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza, nipote di Ludovico il Moro, un solo formaggio fu ammesso: il Montebore. Era il 1489, a Tortona. 
Cerimoniere, Leonardo da Vinci, genio dell’arte e della scienza ma soprattutto attento gastronomo e grande appassionato di quella toma nata sull’Appennino a cavallo tra Liguria e Piemonte. Si dice che fu lui a suggerire il Montebore, intrigato dal gusto forte, ma pure da quella tipica, e geometrica, forma concentrica, tre strati sovrapposti a richiamare il profilo del castello del minuscolo borgo che al formaggio ha poi dato il nome. 
In realtà le origini sono ancora più antiche: la sua preparazione, a base di latte di mucca (70%) e pecora (30%), si fa risalire ai monaci benedettini nell’Ottocento. Poi con lo spopolamento delle valli si è perso, e nel 1982 il Montebore che faceva venire l’acquolina in bocca a Leonardo da Vinci si è estinto definitivamente. C’è voluto un Indiana Jones dei formaggi per ricostruirne la storia e soprattutto restaurarne la ricetta e riportarlo sulle tavole italiane degli intenditori (e sugli scaffali di Eataly). «Con Maurizio Fava, del presidio Slow Food di zona, abbiamo studiato molto e rintracciato Carolina Bracco, nel 1999, l’ultima depositaria in grado di prepararlo ancora secondo la tradizione – racconta Roberto Grattone, nel suo caseificio Vallenostra, a Mongiardino in Val Borbera, da dove ora escono 500 forme a settimana -: è stata lei, che oggi ha più di 80 anni e si sorprende ancora per la rinascita del suo Montebore, a preparare le prime 7 forme da presentare a Cheese». Da allora, l’ascesa. La preziosa ricetta adesso è nelle mani esclusive di Grattone e della moglie Agata Marchesotti: «Siamo gli unici produttori al mondo». Per questo ha conquistato il primato di formaggio più raro e la «coccarda» di presidio Slow Food. Vallenostra è una cooperativa, incastonata in una valle di lupi, a strapiombo sul torrente Borbera: qui il Montebore si prepara ancora come ai tempi di Leonardo da Vinci. Le pecore sono 200 circa. I pastori, due trentenni, della Stalla dei Ciucchi, Matteo Beccuti e Erica Bruzzese, le chiamano per nome. «Gennarina è quella che si fa mungere facilmente, Coccole è un agnello di 2 anni cresciuta a biberon, Nerina una delle prime...». Sono tutte un po’ speciali: «Quasi 150 sono state adottate» dice Grattone.
L’idea è geniale: «È nata 10 anni fa, e piace sempre». Anche molti personaggi noti. «Per 100 euro l’anno si può adottare una pecora Doc, conoscerla e riservarsi così parte della produzione». Poi, a luglio c’è la festa dei «genitori adottivi» che condividono «il raccolto»: un cesto pieno di Montebore, ma anche altri formaggi. Si, perché «Indiana Jones» è inarrestabile e ha già portato a termine una nuova missione: «Abbiamo riscoperto la Mongiardina, fresca di Deco». Ancora una volta, la ricerca è andata indietro nel tempo, fino al 1857: nel dizionario «Genovese domestico» c’è un richiamo a questo «piccolo cacio venduto dai pizzicagnoli e chiamato Mungiardinha». Et voilà, Vallenostra l’ha riportata in scena. E poi ci sono la Mollana della Val Borbera, già Pat (prodotto agroalimentare tradizionale) del Piemonte, il Ruè e il Cadetto, «tutte formaggette di una volta», e tutte resuscitate per amore della storia, e della Val Borbera. Da qui, Roberto Grattone lancia il suo appello: «Vorremmo che sempre più persone adottassero le nostre pecore e la valle si ripopolasse», come ai tempi di Leonardo da Vinci.