la Repubblica, 10 aprile 2016
Nel mondo si mangia proprio bene. Parola di un cuoco di Senigallia
Sono un cuoco viaggiatore. E poiché il mio ristorante è “pieds-dans-l’eau”, tra il molo e la spiaggia di Senigallia, d’inverno mi ritaglio una lunga pausa di meditazione. E vado a provare i ristoranti degli altri. Più che il grande indirizzo, cerco la verità e l’autenticità dei piatti.
Per esempio. Mi hanno portato in un bar musicale di Caracas, il “Greenwich”.
È così dal 1950. Lì ho respirato qualcosa di diverso. Tra l’altro in Venezuela fanno dei formaggi che non hanno niente da invidiare ai nostri, carni arrosto, “arepas”: ho mangiato in modo divino.
Sono impazzito per il mercato del pesce di Tokyo, colazione alle quattro di mattina, mangiando “yakitori”, “ramen”, sushi, gomito a gomito con uno che puzza di pesce perché lì ci lavora.
A Hong Kong ho mangiato nel quartiere di Wuan Chai, in un locale piccolissimo, tre persone in cucina: ravioli, zuppe, pelle dell’anatra.
Magnifico. A Cuba, nelle case di pescatori puoi gustare delle aragoste pazzesche. In Armenia c’è un’interessante fusion libanese, turca, marocchina, kazaka: al “Dolmama” di Yerevan, la capitale, ho mangiato un menù di dieci portate, una cucina, come posso dire, ancestrale, fatta di sapori originari, anche forti, ma veri.
Rispetto a trent’anni fa il cambiamento è stato enorme, allora la grande cucina era quella italiana, francese, in parte spagnola, più quella asiatica, magnifica e lontana. Fino agli anni Ottanta, i cuochi ripetevano quello che avevano imparato, avevano sotto mano un protocollo già pronto. E poi, sì, è arrivato Ferran Adrià e ha liberato fantasia e originalità. Grandi cuochi come Redzepi e Blumenthal sono partiti da lì e chi non aveva quella forza ha semplicemente replicato.
Redzepi, che è cresciuto in Danimarca, dove non c’era nulla, oggi guida un movimento di grande ristorazione che si basa sui prodotti locali. E lo Stato lo supporta. L’anno scorso ha chiuso per due mesi il suo ristorante, il “Noma”, e l’ha portato a Tokyo. Due cuochi erano partiti un anno prima per cercare i prodotti e capire come adattarli alla cucina di casa. Poi si sono imbarcati in quaranta. Un investimento poderoso, ma lungimirante: centoventi pasti al giorno, cinquantamila prenotazioni in stand by, novecento euro a testa per mangiare e dormire, un successo incredibile non solo per il ristorante, ma per la Danimarca tutta. Chissà se ci arriveremo anche noi.