la Repubblica, 10 aprile 2016
Ballare il flamenco con Sara Baras
Un ufficiale di marina sulla via dei gitani. Scontro inevitabile. Un militare innamorato di una ballerina di flamenco. Bodas de sangre? Non proprio, ma neanche rose e fiori. Succede negli anni Sessanta a Cadice, in quella lingua di Andalusia che penzola sopra l’Africa, dove i carnevali e le quaresime sono le feste più lunghe e suggestive dell’anno. La signora è bella, bionda, inequivocabilmente paya, come i gitani chiamano tutti quelli che non lo sono. Ha una passione indomabile per il baile, finirà col gestire una rinomata scuola di danza frequentata anche dalle figlie di Camarón de la Isla, l’imperatore del flamenco nuevo, lui sì gitano doc. «Ho avuto la fortuna di avere il flamenco in casa», racconta Sara Baras, quarantaquattro anni, l’artista che è diventata l’ambasciatrice del baile nel mondo, richiamata per dodici stagioni di seguito al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, acclamata come l’erede di Carmen Amaya e Cristina Hoyos a Londra, New York, Spoleto Festival (ad applaudirla al Teatro Romano l’anno scorso c’era anche Baryshnikov), ora impegnata in un mese di repliche con Voces al Tívoli di Barcellona (dove l’abbiamo incontrata dopo Spoleto e Roma), a maggio attesa nel nuovissimo Zorlu Center di Istanbul che ha l’ambizione di diventare il Radio City Music Hall d’Europa. «Mamma è stata la mia maestra, mi ha trasmesso la passione per l’arte. A cinque anni ero già preda del flamenco». Ma a casa bisognava anche fare i conti col babbo. «Avrebbe voluto per me una scuola, l’università, magari il conservatorio, il fatto che il flamenco fosse un’arte spontanea lo terrorizzava». Era appena adolescente quando il grande Manuel Morao la invitò nella sua compagnia dopo averla vista in uno spettacolino a San Fernando, vicino alla base militare di suo padre. «Era una comune di meravigliosi artisti gitani, bambini, giovani, adulti e vecchi, tutti sul palcoscenico. Li avrei seguiti ovunque, si esibivano a Parigi, Tokyo, New York. Ma papà fu irremovibile e a nulla valse l’insistenza di mia madre. Essere nata a Cadice mi ha dato la possibilità di conoscere i più grandi. Sono cresciuta all’epoca di Camarón de la Isla. Frequentavo la scuola con i figli degli altri ufficiali, le mie amiche non avevano niente a che fare con il mondo del flamenco. È stato un contrasto che mi ha arricchito, da una parte la vita bohémienne degli artisti, dall’altra la disciplina militare».
Ha il viso dolce, la voce suadente, lo sguardo tenero. Fuori scena non ha il temperamento di Lola Flores, che ha sdoganato il flamenco come arte pop e per tutta la vita si è crucciata di non avere sangue gitano al cento per cento. Eppure è proprio lei la diva che ha spogliato il baile da qualsiasi retorica, come in musica avevano già fatto Camarón e Paco de Lucia. Era con Paco al Teatro Real di Madrid quella sera del 2010 in cui l’arte esaltata e celebrata da Federico García Lorca fu ufficialmente dichiarata dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità. « Cante, baile, toque: sono i tre elementi inscindibili del flamenco», dice perentoria. È con questa formula che i suoi spettacoli travolgono il pubblico: ballo, canto e musica in un frenetico crescendo. Sul palcoscenico la Baras è una lingua di fuoco anche senza la bata de cola (il costume tradizionale) e la peineta. E quando per pochi istanti indossa sul palco ilmantón de Manila (prezioso scialle così chiamato perché anticamente ricamato a mano nelle Filippine, allora colonia spagnola) diventa la musa di un rito selvaggio, raffinato e primitivo, euforico e disperato, tenero e sensuale, morboso e appassionato che la
bailaora è chiamata a esprimere con tutto il corpo, dalla punta dei piedi alle ultime falangi delle dita e alla mimica facciale.
Sara Baras è nell’età perfetta per esprimere tanta intensità. Il viso appena accarezzato dal tempo, mai drammatico come quello di Carmen Amaya eppure straordinariamente comunicativo, conferisce maggiore contemporaneità a un’arte che raramente accarezza, graffia piuttosto, come le voci dei magnifici campioni di cante y de toque che l’accompagnano in scena, loro sì gitani doc, o l’irruenza del primo ballerino/coreografo José Serrano, suo marito. «È vero, per decenni si è detto che solo i gitani riuscivano a esprimere il flamenco autentico, quello dei payos era considerato “straniero”», ammette ripensando alla prima infanzia quando, durante il franchismo, la televisione spagnola intossicava il pubblico con ore e ore di cante (purgato da qualsiasi contenuto eversivo, s’intende) che sfiniva anche i più devoti. «Chi ha cambiato questo pensiero è stato Paco de Lucía, anche lui di Cadice, anche lui payo. La sua esplosiva collaborazione con Camarón de la Isla ha completamente ribaltato la prospettiva. Paco è la nostra bandiera, esattamente come Camarón, un idolo per payos e gitanos ».
Ha ancora negli occhi le immagini di quel 3 luglio 1992. Aveva ventun anni. Caldo infernale a San Fernando, che i gitani chiamano La Isla. Una folla enorme partecipa ai funerali di Camarón, morto di cancro a poco più di quarant’anni. La bara del rivoluzionario delcante jondo ondeggia sulle spalle di Tomatito e Paco de Lucía, i suoi due chitarristi, uno gitano l’altro
payo, madidi di sudore, devastati da quella separazione spietatamente architettata dal destino. Insieme avevano resuscitato un’arte che sembrava confinata nel folclore andaluso dei tablao — turismo di gruppo cena inclusa. «Paco lo disse a chiare lettere: il flamenco si parla con dieci parole quando in realtà si potrebbe parlare con diecimila», mormora la Baras. «È un’arte ricca – musica, ritmo, danza, melodia, varietà – che riesce a rinnovarsi e miracolosamente mantenere l’autenticità delle radici. Esprime valori universali attraverso la tecnica, difficilissima, e il sentimento. Ci vogliono anni per penetrare i segreti del
baile e del toque, per preparare il corpo a questa specie di possessione. Anticamente era una danza spontanea, che si tramandava di padre in figlio, di famiglia in famiglia. Le mie antenate non facevano esercizi alla sbarra come noi, che oggi usiamo elementi di classica e contemporanea; in primo piano c’erano le emozioni, la tecnica era un corredo. Ho camminato sulle parole di Antonio Gades: “La tecnica ha un ruolo fondamentale, implica tantissimo studio, ma è come guidare, bisogna evitare che diventi un atto intellettuale, dev’essere un atto riflesso per poter esprimere i sentimenti”. E di Paco, che mi diceva sempre: “Sarita, vola, devi volare in alto e lontano, ma ovunque tu vada non dimenticare mai da dove vieni”. Non facevano che ripeterlo lui e Camarón nei lunghi viaggi tra Cadice e Madrid: “La città non deve cambiare la nostra anima. Vogliono che li stupiamo con la tecnica? Li stordiremo col nostro sentire”. In altri tipi di danza, musica, scenografia, costumi, tutto è separato. Nel flamenco sono una cosa sola».
Paco de Luca è uno degli ispiratori di Voces, lo spettacolo che la Baras ha pensato come un omaggio ai suoi idoli. «Li ho conosciuto tutti, tranne Carmen Amaya (morta nel 1963; al funerale della ballerina
paya che aveva stregato anche Hollywood partecipò commossa tutta la comunità gitana), che infatti nello spettacolo non ha voce. Camarón, Antonio Gades, Moraito, Enrique Morente, il poeta della nostra generazione. Diceva: “Nel flamenco non ci sono maestri, solo discepoli”. Gades lo conobbi in Giappone, lui era in tour nei grandi teatri, io in una sala minuscola. Avevo diciotto anni, tremavo alla sua presenza. Mi permetteva di assistere alle prove, e io lì muta, in estasi. La trilogia del flamenco del regista Carlos Saura, di cui era protagonista, mi ha cambiato la vita. Ammiravo il modo in cui presentava gli spettacoli, il sacrificio, la fatica, la serietà, il rispetto, l’onestà; artista al cento per cento, un semidio ai miei occhi. Questo volevo avere: la primitiva spontaneità di Carmen Amaya e la disciplina di Antonio Gades».
Adesso che Carmen è leggenda, Antonio tra gli immortali, Camarón nell’Olimpo degli zingari e Paco nel paradiso dei payos, è lei, Sara, la regina dell’embrujo, il sortilegio che fa parte dell’eredità culturale dei gitani d’Andalusia. «È un’arte che richiede dedizione totale, non si può fare a mezzo servizio», sospira senza staccare gli occhi dalla foto del figlioletto di quattro anni che la tata le ha appena inviato su whatsApp. « Tienes que bailar y bailar y bailar, anche se non lo fai tecnicamente in modo perfetto non importa.
Escuchalo todo! Sientelo! ».