la Repubblica, 10 aprile 2016
La Siria (ri)vista da Zerocalcare
“Welcome to Rebibbia. Fettuccia di paradiso stretta tra la Tiburtina e la Nomentana, terra di mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Qui ci manca tutto, non ci serve niente”, così recita il murales che ti accoglie quando esci dalla stazione della metropolitana. Siamo nel regno di Zerocalcare, quartiere un tempo noto solo per il carcere e che le storie di Michele Rech, trentadue anni, hanno fatto conoscere in tutta Italia (e oltre). “Hic habitat felicitas” ribadisce pochi metri più in là la scritta su una grande casa gialla un po’ scrostata, dopo il parchetto per bambini, davanti a una stazione di benzina Ip. «Per fortuna non ci fanno il tour come a Garbatella col bar dei Cesaroni», minimizza Zerocalcare che da poco si è spostato in una nuova casa, a cento metri dalla vecchia. Lo stile è lo stesso: poster di band hardcore alle pareti, memorabilia di Guerre Stellari e la famosa riproduzione di una macchina da bar per videogame degli anni Ottanta. C’è solo un po’ più ordine. Lui quasi si scusa: «No, è solo che domani viene gente a cena. Caffé? Va bene nel bicchiere? Non ho tazze». Questione estetica o politica? «No, è solo che io sono straight edge: nessun tipo di droga, neanche caffè. Lo tengo solo per quando qualcuno mi viene a trovare».
Perché “Kobane Calling”?
«Il titolo riprende una canzone dei Clash, London Calling, ma al tempo stesso fa riferimento a un richiamo che sentivamo dentro e che ci chiedeva di ritornare a Kobane, la città che i curdi hanno ripreso all’Is con un grande tributo di sangue.
Questa volta però volevamo ritornare per dare una mano ma anche per cercare di capire davvero quello che sta succedendo lì»
E cosa avete capito?
«È stata una cosa molto intensa. Questa costituzione che loro chiamano “Carta dell’autogoverno” enuncia principi bellissimi, addirittura più avanzati di quelli che abbiamo in Occidente rispetto alla liberazione femminile, alla redistribuzione del reddito, alla difesa dei diritti, a un rapporto ecologico con la natura: sia chiaro non è il paradiso ma almeno è un tentativo...».
E adesso, tornare a casa come è stato?
«Vabbé, io sto sempre bene quando torno a casa però adesso sto in fissa: vorrei trasmettere con chiarezza quello che abbiamo visto. Anche perché, quando una cosa la vedi da vicino poi ti rendi conto di come viene raccontata male, con superficialità, in un modo che non si capisce. È vero che a molti sembra che non freghi niente di queste cose, ma forse non interessano anche perché vengono raccontate male».
Beh, tu in “Kobane calling” le racconti molto bene...
«Davvero? Te pare che po’ annà? Io sono convinto che verrò preso ampiamente per il culo, ma non mi importa».
C’è una domanda che ti fai dall’inizio alla fine del libro.
«Vabbé, mi hanno messo in bocca una cosa che non ho mai detto tipo “io ci andrei a vivere a Kobane“».
A cui tu rispondi...
«Col cazzo».
Però...
«Il mio posto è questo e non lo cambierei per nulla al mondo, però là mi è tornata la voglia di provare a mettere in discussione il modo in cui viviamo noi qui, i nostri modelli di relazione».
Torniamo a Roma. Sei riuscito a evitarti almeno gli “accolli” peggiori, tema del tuo precedente graphic novel?
«Sto imparando a dire subito “no”. Mi ci vorranno altri dieci anni ma ci riuscirò. Ora devo fare centoventi pagine entro giugno».
Però ti pagano...
«Solo per quaranta. È la mia filosofia: per ogni lavoro pagato ne faccio due gratis, ovviamente per cose che ritengo giuste».
“Lo chiamavano Jeeg Robot”: l’hai visto? Ti è piaciuto?
«Sarà che a me a dodici anni dopo Jurassic Park hanno tolto la ghiandola dell’entusiasmo: mi sembra pure un buon film ma non quel capolavoro che dicono. È che i critici non sono più critici. Non essere cattivo è un bel film infatti non è un successo di massa».
A proposito di cinema, come sta andando il film che dovrebbero fare dal tuo libro, “La profezia dell’armadillo”?
«Io la mia parte, scrivere la sceneggiatura con Mastandrea e altri, l’ho fatta, poi vediamo che succederà, se succederà...».
Come mai nei fumetti ti rappresenti sempre con la maglietta con il teschio de “Il Punitore” che nei fumetti Marvel è un giustiziere psicopatico nazistoide che tortura e ammazza i criminali?
«In realtà ci assomiglia ma non è quella: io indosso quasi sempre magliette nere con teschi perché è il simbolo di molti gruppi punk che ascolto. Comunque le storie de Il Punitore mi piacciono molto anche se il personaggio in sé lo considero orrendo».
Sai che tra un po’ uscirà il film di “Civil War”, una delle saghe che cambia completamente le carte in tavola: i supereroi devono registrarsi altrimenti vengono dichiarati fuori legge ed è il mito stesso a guidare la rivolta, Capitan America. Che diventa un terrorista...
«Letta diversamente però la richiesta di identificare i supereroi è come quella che vorrebbe identificare i poliziotti: per evitare possibili abusi io devo avere la possibilità di sapere chi sono».
Quindi stavi con Iron Man?
«Ero combattuto».