la Repubblica, 10 aprile 2016
Perché a Michele Serra non frega niente dell’uomo col cappello
Dell’“uomo con il cappello” non mi interessa niente. Sono contento che l’abbiano preso ma non ho alcuno stimolo ad approfondire la sua storia, la sua scelta criminale, perfino la sua pazzia (e dire che la pazzia ha il suo fascino). So perfettamente che è importante capire, cercare di entrare nel meccanismo dell’odio genocida, nonché nel meccanismo del tradimento infame che questi giovani europei commettono contro la loro Patria. Ma non ci riesco, è più forte di me. È un blocco psicologico vero e proprio. È come se sentissi che soccorrere le vittime, pulire il sangue, far ripartire la vita quotidiana nella sua magnifica banalità è la sola risposta che il terrorismo può e deve ricevere. La mera riparazione del danno inferto, come quando una strada è sporca e bisogna pulirla, un muro è rotto e bisogna rabberciarlo, una persona è morta e si deve accompagnarla al cimitero. Non una parola di più, non un pensiero di più, niente che possa farli sentire interessanti, o perché eroici combattenti o perché disgustosi criminali. Ammiro gli inquirenti costretti ad occuparsene, i giornalisti che cercano il bandolo di quella cupa matassa, gli psichiatri e i criminologi che li studiano. Li ringrazio anche perché mi sollevano da un compito (occuparmi dell’“uomo con il cappello”; anche solamente pensarlo) che non riesco proprio ad affrontare.