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 2016  aprile 10 Domenica calendario

Come cambiano i media italiani secondo un guru americano

Viste dall’altra parte dell’Atlantico, le trasformazioni nel mondo italiano dei media – dalla fusione Espresso-La Stampa, all’accordo Mediaset-Vivendi, all’Ops di Urbano Cairo su Rcs – appaiono come «mosse difensive» rispetto alla crisi globale del settore. Ma, avverte Michael Wolff, sono anche una risposta ad alcune «specificità». «Il mercato italiano dei media era sempre stato anomalo rispetto agli altri – spiega Wolff – perché prevalevano ragioni di potere, di status e di prestigio con le loro valenze extra-economiche. L’uscita dal settore di Fiat-Chrysler rappresenta dunque una svolta e una normalizzazione: alle prese con una base azionaria più internazionale e una concorrenza sempre più difficile nell’auto, la società torinese ha deciso di concentrarsi sul “core business” rinunciando a una attività editoriale per la quale non vedeva sbocchi positivi».
Giornalista, imprenditore del web, autore di saggi, tra cui una celebre biografia di Rupert Murdoch e un libro più recente sul “trionfo” della vecchia televisione nel nuovo mondo dei media, Wolff, 62 anni, è considerato tra i tre o quattro maggiori esperti americani del ramo. Conosce bene anche le problematiche (e le bellezze) dell’Italia, dove viene spesso per motivi professionali e personali.
Wolff, se è d’accordo, cominciamo con delineare i trend globali nel campo dei media, in modo da capire meglio come si inseriscono i movimenti in Italia.
«Dobbiamo innanzitutto distinguere tra i vari media: mentre la tv va alla grande, le prospettive per la carta stampata sembrano sempre più buie, fosche, almeno negli Stati Uniti.
Crollano le tirature e i redditi pubblicitari, mentre gli under 40 hanno perso l’abitudine di leggere o comprare un giornale. Si pensava che la salvezza sarebbe stata il passaggio dalla carta al web, ma i nuovi proventi del business digitale si rivelano ben lontani dalle aspettative dei quotidiani, e non sostituiscono certo quelli si vanno perdendo».
Perché un andamento così deludente del digitale?
«La micro-generazione di contenuti a basso costo ha portato a una esplosione dell’offerta di informazione digitale, dal web ai social media, e quindi a una concorrenza che danneggia i grandi organi di stampa. Gli inserzionisti hanno poi scoperto che per raggiungere la loro “audience” possono fare anche a meno del sito del New York Times, servendosi invece, e a minor costo, di aziende specializzate in big data. Risultato: i quotidiani storici diventano sempre più piccoli e molti – come è già successo al Washington Post con Jeff Bezos (fondatore di Amazon, ndr), ma potrebbe accadere presto anche con il New York Times – rischiano di finire nelle mani di proprietari ricchi, disposti a perdere soldi pur di scoprire la ricetta per i media del futuro».
Ma se quel futuro sarà così tenebroso, a cosa potranno servire operazioni come quelle in corso in Italia?
«Io mi riferivo al mercato americano, dove la crisi è cominciata molto prima che in Europa. Certo, l’incubo per tutti è che il futuro assomigli al presente americano, dove c’è tutta una fascia di quotidiani di città medio- grandi, da Los Angeles, a Chicago, a Baltimora, che accumulano perdite senza sapere come venirne fuori. Temo che negli Stati Uniti sia troppo tardi per un processo di consolidamento, ma altrove, a cominciare dall’Italia, è importante e necessario puntare sull’efficienza produttiva e su maggiori economie di scala, come quelle realizzate dal piano di fusione Espresso-La Stampa o ipotizzate dall’Opa sul Corriere della Sera».
Diverso, invece, è il caso di Mediaset-Vivendi. Se il mondo televisivo, come dice lei, presenta tante promesse, perché Silvio (e il figlio Piersilvio) Berlusconi si sono dovuti alleare con Vincent Bolloré?
«Se è vero che la televisione, quasi a sorpresa, resta centrale nelle nostre vite; se è vero che è un ottimo business perché è riuscita a mantenere alti gli introiti pubblicitari, che negli ultimi 15 anni ha integrato con altre fonti di reddito, è anche vero che il business è molto cambiato, diventando iper-competitivo.
Prima la tv era in pratica solo un veicolo di distribuzione di immagini; adesso, mentre questa distribuzione avviene su più canali, con una crescente presenza nei tablet e negli schermi dei computer, il vero business è quello della produzione di contenuti televisivi».
E tutti si lanciano in quella direzione…
«Sì, a cominciare dai due big dell’ hi-tech, Google e Facebook, che insieme controllano il 60% della pubblicità online. Zuckerberg ha annunciato che il futuro del gruppo è nei video, mentre Google punta a trasformare You-Tube in un canale tv. E in questo contesto Mediaset e Vivendi puntano a nuove sinergie, soprattutto in funzione anti-Netflix: la quale finora ha distribuito i contenuti ottenuti da altri a basso costo, ma si rende conto che in pochi anni le royalties che dovrà pagare saliranno da 6 a 20 miliardi di dollari annui, e così si è già messa a produrre contenuti in proprio»