La Stampa, 11 aprile 2016
La meraviglia delle lacrime di Ranieri
Erano le 15,23, ora del meridiano di Greenwich, quando Jamie Vardy ha segnato il gol del 2-0 rinunciando chissà perché a entrare nella porta vuota col pallone. E pur non avendone le prove, escludo di essere stato il solo a balzare in piedi davanti alla tv e a mettere a repentaglio una corda vocale. Meno di un anno fa sapevo a malapena dell’esistenza di una squadra a nome Leicester: adesso, quando vedo che Ranieri prova invano a soffocare le prime lacrime di commozione di quest’annata da fantascienza, finisce che gli faccio compagnia.
Non è – anzi non sarebbe, mi raccomando perché non è finita – il primo allenatore italiano a vincere in Inghilterra. É già toccato ad Ancelotti e a Mancini, presto verrà il turno di Conte. Ma, intanto, non posso non ricordare l’ultimo incrocio di persona, un annetto fa, di fronte alla chiesa di Trastevere a spingere una carrozzina, reduce dall’esperienza disastrosa alla guida della nazionale di Grecia, e davvero chi l’avrebbe mai detto. E poi Carletto e quell’altro avevano squadre costruite per vincere. Il testaccino, un po’ meno.
Invece, in capo a una carriera giocata quasi tutta da Davide che per quanto bene riuscisse a battersi alla fine vinceva Golia, Claudio Ranieri è a un passo da un’impresa che nel calcio moderno non ha precedenti. Un passo distante 9 punti, sui 15 che restano a disposizione, anche se potrebbero bastarne di meno. Ha un ottimo portiere figlio d’arte, Schmeichel, tre signori giocatori che – attenzione – tali sono diventati con lui, e una banda di buoni mestieranti che hanno il pregio – tattico – di saper sempre esattamente dove stare, come muoversi e cosa (provare a) fare. I tre buoni sono Vardy, centravanti di agilità e insieme di potenza che sa far reparto da solo, il francese Kanté, straordinario recuperatore di palloni e non solo, e Mahrez, algerino di talento. Gli altri sono appena normali, e lo si vede da come sparacchiano palla in tribuna al primo accenno di raffreddore. Ma qualcosa, anzi molto, in questi mesi hanno imparato. Il lancio del primo gol di ieri, quaranta metri di battuta profonda a pescare Vardy alle spalle del centrale, sembrava opera di Luisito Suarez, da non confondere con il campione-energumeno del Barça: così come lo scatto di Vardy e il suo tocco sull’uscita del portiere ha richiamato il primo Sandrino Mazzola. Perché quando una squadra sbuca dal nulla è inevitabile andare a caccia di suggestioni, e la sola che mi è venuta in mente è quella della grande Inter per come sapeva stare raccolta dietro e poi fiondarsi nel vuoto all’improvviso. Ma con questa, enorme differenza. Che là c’era abbondanza di campioni: nel Leicester, in senso stretto, non ce n’è uno.
C’è però una strepitosa organizzazione di gioco. Difensiva, innanzitutto, con quei due armadi di centrali che poco o nulla concedono nel gioco aereo. Ma la fase offensiva non è soltanto contropiede, pardon, ripartenza. È anche possesso nei paraggi dell’area altrui, quando come ieri si tratta di far passare i minuti finali tenendo gli avversari lontani dalla propria area. È una squadra, il Leicester, che certamente profuma d’antico. Ma vive e lotta con noi senza farci sentire sorpassati.