il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2016
C’è un’altra guerra al mondo che si combatte brandendo salami: è quella del cibo
Ma perché i carnivori ce l’hanno tanto coi vegetariani? Quale primato sentono insidiato, quale saggezza hanno da far valere? Da gruppo umano maggioritario che fondava la sua ragione sul numero e su rimasticate pseudo-teorie evoluzionistiche (“si è sempre fatto così”), oggi che i vegetariani sono legione i carnivori si sono dovuti dare un supplemento di forza. Alcuni brandiscono salami contro i vegani in (invero patetica) rivolta, altri, per dire il machismo sotteso al trangugiar cartilagini e sangue, rivendicano filetti e sconfessano culatelli, per stabilire la verità biologica del mondo: il più forte sopravvive e il debole soccombe. Per un convinto carnivoro chiunque non mangi carne è un fanatico da compatire. Certo, ci sono anche i jihadisti del tofu, su cui libretti di successo hanno fatto tutta l’ironia possibile (poca, incomparabile con quella di A. W Brown: “Non sono vegetariano perché amo gli animali. “Sono vegetariano perché odio le piante”). Ma non mangiare animali è una scelta igienica e pacifica. I due razzismi sono simmetrici: il primo ha tutti i difetti delle utopie di purezza (il cantante inglese Morrissey interrompe i concerti se si accorge che qualcuno nel pubblico mangia hot-dog); quello dei fieri divoratori di mucche, cavalli, agnelli, maiali, invece, contiene un elogio, consapevole o no, della morte e della violenza.
Come ricorda Michael Pollan ne Il dilemma dell’onnivoro, la “regola” di mangiare carne esula dal dato nutrizionale e affonda nell’educazione, nelle ragioni dell’industria capitalistica, nella logica del dominio.
Rispondendo a una domanda sui tempi della scuola, Carlo Emilio Gadda disse: “Il papà m’infliggeva una tavoletta di carne tutti i giorni, perché si vede che avevano sentito che ai bambini fa bene la carne. Era noiosissima da deglutire e da mangiare”. Questo obbligo divenuto fobia finì poi nella Cognizione del dolore.
Se non stacchi dall’osso brandelli di manzo e non succhi ossibuchi e non suggi animelle e non affondi la faccia nell’urina del rognone, hai qualcosa che non va agli occhi della società: non sai goderti la vita, sei ritentivo-anale e non predatorio-senziente, vuoi far fallire l’evoluzione, vuoi crescere i figli a radici, vuoi estinguere il genere umano, e inevitabilmente ti si riduce a Hitler che, come ricorda Guido Ceronetti ne Il silenzio de corpo, forse era vegetariano ad imitazione di Wagner, forse aveva troppa ammirazione per la morte per portarla alla bocca.
Nei Minima moralia Theodor W. Adorno esagera: “Auschwitz inizia quando si guarda a un mattatoio e si pensa: sono soltanto animali.” Ma non è un caso se ogni macchina mortifera è ripresa dalle tecniche del macello, e ogni tortura riproduce l’ostentazione del maiale squartato davanti alla bottega. I vegetariani hanno solo fatto il percorso inverso e hanno visto quello che non si vorrebbe vedere, e cioè gli occhi nella bistecca.
In una lettera alla sorella dal sanatorio di Matliary, Kafka – che si era ossessivamente assicurato che gli fosse garantita una dieta vegetariana e che il sapone nel bagno non fosse fatto con grassi animali, il cui odore lo feriva – dice di essere “triste come una iena” per aver ceduto a mangiare una scatoletta di sardine con patate e maionese. Dice di aver visto la iena, se stesso, che con le zampe squarciava la scatola, una “bara di latta” dentro cui erano adagiati, l’uno accanto all’altro, cadaveri da divorare.
“Sapere vegetariani Leonardo e Kafka”, scrive Ceronetti, “mi dà frescura. Si muovono, nel mondo contaminato, incontaminati, portando una luce non mescolata alle candele piene di lamento, alle lampadine del mattatoio e della stalla sacrificale”. È questa incontaminatezza, che i carnivori irridono. Ma basterebbe chiedere loro, predatori da supermercato, di andare a procacciarsi la carne lottando, nudi, contro manzi e maiali, per fargli capire chi è nel mondo il più debole.