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 2016  aprile 11 Lunedì calendario

Rasha Tareq su caso Regeni: «È stata la polizia a infilarci in casa i documenti di Giulio» • Il commando di Bruxelles voleva colpire ancora Parigi • Renzi sfida i magistrati: «Lavorate di più» • Lacrimogeni contri i migranti in Macedonia • Le strade più pericolose per i ciclisti

 

Regeni Rasha Tareq, 27 anni, figlia del cosiddetto «capobanda della gang specializzata nel derubare e sequestrare stranieri», accusata dalle autorità del Cairo di avere ucciso Giulio Regeni o forse solo di averlo derubato (non è più chiaro quale sia l’ultima versione), ha deciso di parlare col Corriere della Sera, perché, dice, quella verità su Giulio è una menzogna. Quel che è chiaro è che il 24 marzo i corpi dei tre familiari di Rasha, insieme a quelli di altre due persone, sono stati trovati crivellati di proiettili in un microbus: la polizia ha detto che c’era stata una sparatoria tra quei criminali e gli agenti nella zona residenziale di Nuova Cairo. Poche ore dopo, è stato annunciato che i documenti del ricercatore italiano erano stati ritrovati dentro una borsa rossa nell’appartamento della zia di Rasha e Sameh, nel quartiere popolare di Shobra El Khema. Ma la figlia del presunto capobanda sostengono che è una montatura della polizia. «Sì, mio padre aveva avuto dei guai con la legge, per essersi spacciato per un poliziotto di basso rango e mio marito era con lui, ma avevano abbandonato ogni attività criminale dopo essere usciti di prigione sei anni fa. Non avrebbero mai portato mio fratello a fare qualcosa di illegale. Lui aveva un buon lavoro, vendeva macchine». La sua versione di quel che accadde il 24 marzo è la seguente. Suo marito e suo fratello dovevano andare insieme per un lavoro di imbiancatura a Nuova Cairo. Ma lei non si fidava del marito donnaiolo, quindi aveva chiesto al padre e ad un amico del padre, Mustafa Bikr, di accompagnarli. Hanno preso in affitto un microbus, guidato da un giovane autista di nome Ibrahim Farouk. Rasha, apprensiva, ha chiamato il marito tra le 7 e le 8 del mattino. Non ha risposto, ma dall’altro capo del filo lei ha sentito la voce del fratello. «Diceva: “Basha (termine che si usa per riferirsi alle autorità, ndr ), faremo tutto quello che vuoi”». È convinta che Saad parlasse ad un poliziotto. Per questo era andata al commissariato. Ma ha scoperto che erano morti. Ha già denunciato la sua versione al sito «dotmasr», insieme ai famigliari degli altri due uccisi, ma ha saputo che chi ha contraddetto le autorità è stato arrestato. «E noi due adesso siamo ricercati». Lei e suo fratello Sameh sono convinti che la prova dell’estraneità della loro famiglia alla storia di Giulio è contenuta proprio in quella borsa rossa che, secondo le autorità, rivelerebbe il loro coinvolgimento. «Quella borsa era di mio fratello Saad. Il portafogli con la scritta “Love” è di mia madre. I soldi erano il frutto della vendita di un’auto a un tizio di Dubai. La polizia ha messo i documenti tra le nostre cose durante la perquisizione — dice Sameh — Non può essere stato nessun altro. E la prova è che tra gli oggetti c’è il portafogli marrone di mio fratello: lo aveva con sé quando lo hanno ucciso» (Mazza, Cds).

Renzi Renzi torna in tivù (al Tg5) per smentire qualunque intenzione di imporre un bavaglio ai pm o ai giornali in materia di intercettazioni: «Il governo non ci metterà mano», è l’annuncio. Dunque, niente corsa contro il tempo per approvare entro l’estate la delega al overno contenuta nella riforma del processo penale (così si era vociferato nei giorni scorsi). Renzi si dichiara convinto che le intercettazioni anzi servono, sono necessarie «per scoprire i colpevoli da mandare a casa e poi in carcere». Poi, senza dubbio, finiscono sui media una quantità di «vicende familiari» e «pettegolezzi» che sarebbe meglio evitare. Un certo voyeurismo è innegabile, e l’inchiesta di Potenza ai suoi occhi non ha fatto eccezione (si pensi agli sfoghi privatissimi dell’ex ministro Guidi tracimati nelle cronache). Ma invece di minacciare il pugno di ferro,Renzi confida d’ora in poi sul odice deontologico delle toghe, sulla loro professionalità, insomma sull’autodisciplina. Ci sono già magistrati «molto seri che non passano queste informazioni. Spero nel buon senso e nella responsabilità da parte di tutti». Una volta chiarito che «chi è onesto non ha paura dei magistrati», e che adesso non è più come in passato, «quando i politici cercavano di non essere interrogati e si inventavano i legittimi impedimenti», Renzi passa al contrattacco. Sceglie il terreno su cui è sicuro di avere gli italiani con sé: i magistrati devono «lavorare di più, non di meno». Che si concevdano troppe ferie, che 45 giorni l’anno di vacanze siano troppi è convinzione del premier, il quale sfida le toghe a emanare più sentenze, e attraverso le sentenze a fare «finalmente giustizia in Italia» perché oggi ancora non ci siamo, non basta (Magri, Sta).

Albrini Mohamed Abrini, il trentunenne terrorista di origini marocchine arrestato venerdì a Bruxelles, agli inquirenti ha assicurato di essere «l’uomo col cappello» scappato da Zaventem, confessando anche di aver scelto all’ultimo momento la capitale belga come bersaglio perché la cellula «si sentiva braccata». L’obiettivo era «colpire di nuovo la Francia», ha ammesso la Procura federale. Secondo l’ex agente di intelligence Claude Moniquet, citato dal «New York Times», nei c’era il quartiere della Défense, una non precisata associazione cattolica e il cuore della grande impresa francese. Un attacco simbolico. Saltato quando stava per accadere. Così, almeno, assicura l’uomo che gli amici chiamavano «Brioche», belga di Molenbeek come l’amico Salah, anche lui recluso, con cui viaggiò verso Parigi alla vigilia del 13 novembre. Il dubbio è d’obbligo perché molti dettagli non tornano. L’analista Pieter Van Ostaeyen ha spiegato all’agenzia Belga che non è nella logica di Daesh dire la verità; si parla per piani coprire i complici: «Non posso credere che chi riveste un ruolo di spicco nell’Isis possa dire tutto d’un botto “le cose si sono svolte così” e spiegare di aver venduto il cappello». Dettaglio curioso, quest’ultimo, visto che il jihadista si era liberato della giacca «buttandola». C’è anche l’incognita della fisionomia. La polizia aveva stimato che il terzo uomo col carrello di Zaventem fosse alto circa un metro e novanta, il che fa mancare ad Abrini almeno 15 centimetri. Potrebbe essere stato un effetto ottico, assicura una fonte. Comunque sia, gli inquirenti sembrano dar credito alle sue parole, o far credere all’opinione pubblica di crederci. A «Brioche» sono ora ufficialmente imputati i morti sia di Parigi che di Bruxelles (Zatterin, Sta)

Idomeni Una giornata di scontri e lacrimogeni, di proiettili di gomma, di bambini e mamme in fuga tra i campi per evitare i gas sparati dagli agenti: almeno 260 profughi ospitati nel campo di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, sono stati curati dai Medici senza frontiere dopo aver tentato disperatamente e inutilmente di oltrepassare la barriera di acciaio protetta dalla polizia macedone. Volevano proseguire il viaggio verso il Nord Europa, sono finiti male: sei ricoverati in ospedale, duecento intossicati dai lacrimogeni e una sessantina di feriti e contusi, una metà dei quali «colpiti da proiettili di gomma». La situazione nel grande campo di Idomeni - che ospita undicimila persone - è precipitata in mattinata dopo che cinque rappresentanti dei migranti hanno raggiunto i poliziotti macedoni al confine chiedendo se fosse vero che la Macedonia avrebbe riaperto temporaneamente il confine, come facevano credere i volantini distribuiti nel campo invitando a rimettersi in marcia ieri mattina. Al “no” senza tentennamenti dei poliziotti, un’onda di centinaia di persone - tra cui decine di bambini - ha tentato di forzare il confine, scatenando la repressione della polizia macedone davanti agli occhi dei colleghi greci, che hanno osservato senza intervenire. Più tardi il governo greco ha definito «pericoloso e deplorevole l’uso indiscriminato di agenti chimici, proiettili di gomma e granate stordenti contro persone vulnerabili». Il gas ha raggiunto anche il campo, costringendo famiglie intere a scappare mentre alcuni dei profughi respinti lanciavano pietre agli agenti oltre la recinzione (Brera, Rep).

Ciclisti I dati raccolti dall’Automobil Club in base a statistiche Istat svelano le strade più pericolose per i ciclisti: in testa l’Aurelia (in particolare una tratta di 30 chilometri in provincia di Savona), seguita da Adriatica (Pesaro, Urbino, Rimini, Macerata, Teramo), Padana Superiore, Emilia (Forlì-Cesena), Pontebbana. Migliaia i traumi importanti, tra quelli che coinvolgono i ciclisti della città e gli appassionati della bici da corsa. Nel 2014, sono state 273 le vittime di incidenti stradali, 16.994 i feriti per un totale di 18.055 mezzi a terra. I casi più gravi sono avvenuti nella rete viaria principale con 1471 incidenti (73 con più di una bici), 1583 i feriti. In quarantanove hanno perso la vita mentre pedalavano, oltre l’80 per cento per scontri con auto e veicoli merci, soprattutto in prossimità degli incroci e per scontri frontali-laterali. Gli episodi si concentrano il sabato e la domenica, tra le 10 e le 12, periodo maggio-ottobre, con un picco isolato in agosto. Gli orari e i mesi prediletti dagli appassionati della corsa che approfittano del tempo libero (De Bac, Cds)

(a cura di Roberta Mercuri)