Corriere della Sera, 11 aprile 2016
Nello squallore del camposanto degl’italiani di Tripoli, tra sterpaglie, altari divelti e tombe profanate. Morire in Libia è una dannazione della memoria
Ai Bastianini, hanno staccato la parola «Famiglia» e spaccato le lapidi. Ai Rizzi, sfondato il pavimento e tolto le croci. Ai Bettucchi, divelto l’altare. Dei Bissi è rimasta solo un’ombra del nome. Sui Lovato, Ernesto e Teresa e Maria Giovanna, vagano i cani randagi a spolparsi qualche osso che sembra d’animale. «I salafiti sono venuti due volte – racconta il custode libico – l’ultima a novembre, e hanno distrutto il poco che restava da distruggere». Requiescant In Pace, è l’iscrizione all’ingresso del vecchio Cimitero cristiano degl’Italiani di Tripoli, a due chilometri dal centro, ma qui gl’italiani non riposano più: li hanno dovuti spostare in fondo al vialetto, in un sacrario blindato e chiuso con cancellate e catene, sperando che almeno lì nessuno scavalchi e completi l’opera. E i portalumi liberty, le foto seppiate, persino i crematori sono stati presi a picconate. Si sapeva, ma vedere è un’altra cosa: tutto è sparso in giro, buttato nelle sterpaglie seccate dal vento caldo del deserto. Anche il vecchio custode italiano, Bruno, se n’è andato da un pezzo. Il tutto mentre Barack Obama ammette: «Il mio più grande errore in questi otto anni? Non aver avuto un piano sulla Libia post Gheddafi».
Italiani brada gente. Dodici scalini dividono due cimiteri e due modi di difendere la memoria. Perché basta camminare appena oltre le nostre tombe devastate, salire gradini che portano all’ala ovest del cimitero Hammangi e di colpo s’entra in un altro aldilà. Di qui lo squallore del camposanto italiano profanato, appena di là il prato verde all’inglese e annaffiato e ben rasato del Tripoli War Cemetery. Il sepolcro candido del Capitano T. W. Dirkin dei Royal Engineers, morto il 17 ottobre 1943 all’età di 24 anni, ha i fiori freschi e così gli altri, più d’un migliaio, tutti i soldati di Sua Maestà che combatterono i nazifascisti e che Sua Maestà non ha dimenticato. «L’ambasciata inglese a Tripoli è chiusa da tempo, come quella italiana, ma la differenza è che loro pagano…», dice il custode: un paio di guardiani armati che tengano alla larga i fondamentalisti islamici, qualche giardiniere che pettini l’erba. Nessuno si sogna di toccare le croci, nel Cimitero degl’Inglesi.
Morire in Libia è una dannazione della memoria. Il cimitero cristiano di Tripoli esiste dal Cinquecento, gentile concessione del Pascià. Dicono i tripolini che nemmeno ai tempi degli Ottomani si sono mai viste tombe cristiane ridotte come queste. Accanto alle salme italiane, ce ne sono d’ancora più abbandonate: quelle dei migranti annegati mentre cercavano di raggiungere l’Italia. Non stanno nell’oasi verde degl’inglesi, naturalmente: hanno trovato spazio solo nelle frasche morte dei Bastianini e dei Rizzi. Un Naja Wisi Najato del Burkina Faso, ripescato in mare il 4 maggio 2015. Molti «unknown», sconosciuti, scritti a pennarello. Croci di legno, quasi nascoste dalla rovina. I fanatici non le hanno viste. O forse non vale neanche la pena di spaccarle.