La Stampa, 9 aprile 2016
La nonna sex symbol. Intervista ad Anna Galiena
Di «farsi tirare» non se ne parla nemmeno, la «magnata» non è peccato, e la ginnastica va bene, ma con moderazione. Il segreto di giovinezza di Anna Galiena sta nell’allegra strafottenza con cui affronta il passare del tempo, senza paura di mostrarne gli inevitabili segni, accettando di diventare nonna per finta e relegando i rimpianti ai «momenti in cui sono depressa».
Insomma, una ricetta a prova di bomba, snocciolata con voce carezzevole e roca, fatta apposta per convincere che il sex symbol esploso con
Il marito della parrucchiera
era felice allora, esattamente come lo è adesso: «Rispetto al passato sono più serena, bisogna conoscersi e accettarsi per quello che si è. E se uno non lo ha fatto finora, ma che ha campato a fare?».
In «Un’estate in Provenza» di Rose Bosch (dal 13 nei cinema) è la nonna di due adolescenti e del loro fratellino Théo, sordo dalla nascita. Che cosa le è piaciuto dell’esperienza?
«Tutto. Recitare con attori giovanissimi in una storia dove il bambino sordomuto viene trattato in modo assolutamente normale, essere diretta da una regista di cui avevo molto apprezzato il film precedente Vento di primavera».
Fare la nonna non le ha dato alcun fastidio?
«Nessuno. Dopo i sessanta puoi esserlo, sarebbe curioso se mi mettessi a fare la ragazzina. Insomma, finchè il personaggio è interessante, va bene. Anzi, un ruolo così può anche essere liberatorio, dipende da come ci si vede nella vita».
Il suo partner è Jean Reno, che tipo è?
«Non un “piacione”, ma un signore con la sua età, la sua carriera, un ottimo osservatore a cui piace chiacchierare e condividere... Sul set è di quelli che i problemi li risolvono invece di crearli».
Ha scelto di vivere a Parigi e non è mai tornata indietro. Zero ripensamenti?
«Ci sono andata per amore e, quando è finita, come accade sempre in coincidenza di un divorzio, quindi di un cambiamento, mi sono chiesta che cosa fosse meglio fare. E sono rimasta lì, perché ci sto bene, perché a portarmi ovunque pensa già il mio lavoro».
C’entra anche un debito di riconoscenza, visto che è stata la Francia, con «Il marito della parrucchiera», a regalarle la fama?
«È vero, la Francia mi ha scoperto, poi si è risvegliata anche l’Italia, ma non è questo il motivo per cui sono rimasta. Il punto è che lì il rapporto con lo Stato è migliore, le regole esistono e vengono rispettate. Roma invece è gestita male, è diventata una città dove mi arrabbio per tutto, dai pullman enormi che bloccano il centro ai parcheggi in doppia fila; non so, se spostassero la capitale altrove, magari a Terni, potrei anche tornare».
Dopo «Il marito della parrucchiera» la volevano tutti. Ha detto anche dei no?
«Tanti, perfino in America, i film d’azione non mi interessavano e ho sempre voluto fare quello che mi pareva».
Anche con Tinto Brass, che l’aveva scelta per «Senso ’45»?
«Sì, ma lì non mi sono divertita, il progetto era bello e c’era la possibilità di fare un buon lavoro, ma la tendenza di Tinto era sempre la stessa, così sul set ci furono contrasti e alla fine ho deciso di non promuovere il film, anche se mi chiamavano dall’estero e lo volevano distribuire in tutto il mondo».
Oltre ai film e alle fiction, fa anche tanto teatro.
«È quello con cui ho iniziato, e che mi ha sempre dato tanto. Al cinema mi sento un’operaia, faccio qualcosa che poi tocca ad altri assemblare. A teatro, invece, ci si sente artigiani, lavori sul pezzo, nessuno ti può manipolare».
Rimpianti non ne ha. E rimorsi?
«Se vengono, bisogna levarseli andando a chiedere scusa alle persone a cui si è fatto del male».