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 2016  aprile 09 Sabato calendario

Quant’è difficile smontare l’Expo

Un anno fa, la via lunga un chilometro e mezzo su cui si è affacciato il mondo era più trafficata di una tangenziale. File di camion e ruspe, migliaia di operai al lavoro giorno e notte per terminare la costruzione della cittadella di Expo per l’inaugurazione del Primo maggio. Oggi, c’è un altro cantiere in quell’area. E altri operai che stanno smontando i padiglioni. In molti punti rimane solo terra dove c’erano le strutture, ma in altri il tempo sembra essersi fermato a cinque mesi fa, quando i cancelli sono stati chiusi. Perché il mondo, ancora una volta, sta viaggiando a velocità diverse. Non tutti i 52 Paesi che hanno realizzato un edificio autonomo riusciranno a farlo sparire per la fine di maggio, la dead line fissata da Expo spa. Tanto che in una decina di casi serviranno proroghe, magari sino a ottobre, ragiona qualche tecnico.
Dall’esterno, il granaio 2.0 degli Stati Uniti è ancora lì, come quando lo ha visitato Michelle Obama. Tutto bloccato: la cordata di aziende private che lo ha realizzato – non è stato un intervento del governo – contava sugli sponsor, ma all’appello sono mancati diversi milioni e i conti delle ditte costruttrici non sono stati saldati completamente. Anche il tempio del Nepal non è stato toccato: è finito sotto sequestro – ancora per mancati versamenti – e ora si cerca una soluzione, sperando in un privato che lo acquisti coprendo i debiti e rimontando l’opera in Italia. Quelli del Turkmenistan, invece, sono quasi spariti e sono al lavoro le diplomazie. Il Sudan non ce la farà a compiere l’ultima fatica demolendo la sua casa temporanea. E poi ci sono Polonia, Messico, Ungheria e Santa Sede a cui bisognerà sicuramente concedere proroghe. I padiglioni erano stati congelati per ospitare i ricercatori del progetto scientifico Human Technopole. Ma alla fine i futuri laboratori si trasferiranno (entro il 2016, magari già nella tarda estate) solo in alcune strutture di servizio come quelle che avevano accolto i ristoranti di Eataly e l’ex Conference center. I tecnici stanno scrivendo ai Paesi per avvertirli del cambio di programma, ma si ricomincia quasi da capo.
È ancora un cantiere, insomma, l’area di Expo. Anche se camminando lungo un Decumano ancora pulito come se i visitatori dovessero entrare a momenti, si fa quasi fatica ad accorgersene. E non solo perché dal verde dei giardini ai cluster, dagli edifici del Cardo a Palazzo Italia, le parti destinate a rimanere sono state conservate com’erano. L’Expo che non c’è già più la vedi nei rettangoli di terra che hanno preso il posto dell’enorme cappello dei coltivatori di riso della Thailandia, del gigantesco padiglione della Cina, del bosco dell’Austria, dell’alveare della Gran Bretagna, della Germania. Scomparsi. Come è avvenuto in tutto per oltre venti padiglioni statali. In un’altra dozzina di spazi restano cumuli di macerie da portar via o gli ultimi ritocchi: i titoli di coda arriveranno entro aprile. Tre gru e una cinquantina di operai stanno smontando pezzo dopo pezzo l’oasi nel deserto che rinascerà negli Emirati Arabi: solo uno scheletro che però, assicurano, svanirà entro fine maggio. Qualche Paese è ancora alle prese con le attività maggiori: dal Vietnam all’Azerbaigian. L’Estonia inizierà in questi giorni. La rete del Brasile su cui hanno saltato in migliaia deve essere ancora smontata: volerà in Campania per rinascerà in un museo del cane. L’Angola era partita, ma si è fermata: vuole rimontare tutto in patria e ha chiesto tempo fino a luglio. Non sono quelli gli allarmi rossi, però. C’è una decina di spazi, compresi quelli inizialmente destinati a Human Technopole, i cui Paesi non hanno ancora iniziato a demolire e non ce la faranno in tempo. L’enigma maggiore rimane il destino degli Usa. Ma anche la Romania deve scattare: ce la farà? Per non parlare della struttura delle aziende cinesi di cui nessuno sa più nulla, come altri spazi privati in ritardo. Il 27 maggio, una porzione del sito riaprirà. E oltre le barriere, il cantiere continuerà.