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 2016  aprile 09 Sabato calendario

Vertici della polizia, della magistratura e dei servizi segreti egiziani sono stati per due giorni a discutere con la controparte italiana del caso Regeni e il risultato di questa due giorni è stato che l’Italia ha richiamato in patria il nostro ambasciatore al Cairo

Vertici della polizia, della magistratura e dei servizi segreti egiziani sono stati per due giorni a discutere con la controparte italiana del caso Regeni e il risultato di questa due giorni è stato che l’Italia ha richiamato in patria il nostro ambasciatore al Cairo. Segnale pesante, nelle relazioni tra i due paesi.

È una rottura diplomatica? Potrebbe scoppiare la guerra?
È il penultimo passo prima della rottura vera e propria delle relazioni diplomatiche, un esito che francamente ci pare impossibile e che soprattutto gli egiziani, nelle condizioni economiche in cui si trovano, non possono permettersi. La formula che si adopera in questi casi, e che è stata usata anche stavolta, è «per consultazioni». Come se l’ambasciatore fosse stato fatto tornare a casa solo perché il suo ministro aveva bisogno di parlargli a quattr’occhi. Il che rende possibile, speriamo presto, un ritorno al Cairo senza problemi. Il nostro ambasciatore, Maurizio Massari, assolutamente all’altezza in tutta la vicenda, è stato il primo a denunciare il massacro che ha portato alla morte di Regeni. Un assassinio feroce, come risultò chiaro dall’autopsia eseguita poi in Italia e dalle parole della madre, che aveva riconosciuto il figlio solo «dalla punta del naso». Il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che in Parlamento aveva annunciato «misure immediate» se nei rapporti tra i nostri inquirenti e i loro non ci fosse stata una svolta, ieri si è limitato a questa breve frase: «Ho richiamato a Roma per consultazioni il nostro ambasciatore in Egitto. Vogliamo una sola cosa: la verità su Giulio». Un tweet di Renzi ribadisce gli stessi concetti.  

Che cosa ci si aspettava da questa due giorni di incontri con gli egiziani?
In termini quantitativi, i nostri pensavano che gli egiziani si sarebbero presentati con almeno duemila pagine di carte. I dossier portati dagli egiziani erano invece piuttosto smilzi. Mancavano, come minimo, i tabulati telefonici di una ventina di utenze riconducibili ad altrettanti cittadini egiziani che si sono mossi prima e dopo il sequestro, il relativo traffico di celle, i filmati delle telecamere della metro, e del quartiere di Gyza dove viveva Regeni e del quartiere 6 ottobre, dove è stato ritrovato il corpo. Gli inquirenti egiziani hanno consegnato immagini insignificanti del tratto di strada tra l’abitazione di Giulio e la metropolitana di Dokki, le fotografie del ritrovamento del corpo lungo la strada Cairo-Alessandria, del tutto neutre, i verbali di sopralluogo dell’appartamento in cui Regeni abitava. Gli uomini del Cairo sostengono ancora che i responsabili della morte di Giulio sono i cinque malviventi uccisi dalla polizia il 24 marzo e che «solo al termine delle indagini sarà possibile stabilire il ruolo di questa banda criminale». Il problema è che i nostri non credono minimamente alla tesi della banda criminale.  

E a che cosa credono invece?
C’è una denuncia anonima, recapitata a Repubblica e al legale della famiglia Regeni, secondo cui l’ordine di sequestrare Giulio Regeni è stato impartito dal generale Khaled Shalabi, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza. Fu Shalabi, prima del sequestro, a mettere sotto controllo la casa e i movimenti di Regeni e a chiedere di perquisire il suo appartamento insieme ad ufficiali della Sicurezza Nazionale. Fu Shalabi, il 25 gennaio, subito dopo il sequestro, a trattenere Regeni nella sede del distretto di sicurezza di Giza per ventiquattro ore. Giulio si rifiutava di rispondere alle domande sui capi dei sindacati che aveva conosciuto senza un rappresentante dell’ambasciata italiana e venne perciò picchiato. Per ordine del Ministero dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar, venne poi trasferito in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City e qui, secondo le istruzioni del capo della Sicurezza Nazionale, Mohamed Sharawy, cominciò una seconda serie di torture che comprendevano il pestaggio sul volto e le bastonature sotto i piedi. Lo appesero poi a una porta, lo sottoposero a scariche elettriche in parti delicate, privandolo di acqua, cibo, sonno, lasciandolo nudo in piedi in una stanza dal pavimento allagato, nel quale passavano ogni mezz’ora scosse elettriche. Regeni non ha parlato neanche allora. Il ministro dell’Interno decise allora di investire della questione il consigliere del Presidente, il generale Ahmad Jamal ad-Din, che, informato Al Sisi, dispose l’ordine di trasferimento dello studente in una sede dei Servizi segreti militari. Qui tra le altre cose gli spensero i mozziconi di sigaretta sul collo e sulle orecchie. E poi lo finirono con un colpo di baionetta».  

Perché dovremmo credere a questa denuncia anonima?
Ci sono dettagli - come le bastonature sotto i piedi - che nessuno ha mai rivelato e che sono confermati dall’autopsia in Italia.  

Com’era composta la delegazione egiziana venuta a Roma per prendere in giro gli italiani?
Gli incontri, durati due giorni, si sono svolti nei locali della Scuola di polizia di via Guido Reni. Per l’Italia hanno partecipato i dirigenti del Servizio centrale operativo (Sco), della polizia di Stato e del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’Arma dei carabinieri. Il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco. Dal Cairo, con il procuratore generale aggiunto Mostafa Soliman e Mohamed Hamdy, suo segretario, sono venuti il generale Adel Gaffar della Sicurezza Nazionale, il comandante Mostafa Meabed, l’ufficiale Ahmed Aziz e, al posto del brigadiere generale Alal Abdel Megid dei servizi centrali della polizia egiziana, il generale Alaa Azmi, vice-direttore delle indagini criminali di Giza. Vale a dire, il vice di Khaled Shalaby, indicato dall’Anonimo come l’uomo che dispose la sorveglianza di Giulio prima del suo sequestro, ne ordinò e supervisionò la tortura in una caserma di Giza e quindi lavorò al depistaggio.