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 2016  aprile 08 Venerdì calendario

Al vertice sul caso Regeni gli egiziani si sono presentati con un dossier incompleto

La svolta sul caso Regeni nella collaborazione a singhiozzo degli inquirenti egiziani con i colleghi italiani non c’è stata. Finora. Ma oggi, al secondo giorno di riunione presso la Scuola superiore della Polizia di Stato, in via Guido Reni a Roma, ci sarà un punto finale. L’evoluzione della riunione odierna farà intendere se e quanto l’Egitto voglia davvero contribuire all’accertamento della verità sulla morte del ricercatore italiano. Da stamattina, insomma, si svolge un faccia a faccia a questo punto decisivo.
Ieri, infatti, l’incontro – iniziato attorno alle 10 e conclusosi verso le 15 – è stato destinato, oltre la formalità dei saluti, a scambiarsi le carte giudiziarie sulla vicenda. È cominciata così una partita vera e propria. Tanto che la ridotta durata dell’incontro si spiega in un sol modo: sia gli italiani, sia gli egiziani, fino a domattina devono studiare gli incartamenti ricevuti. Valutarli, soprattutto, rispetto alla propria strategia. Nel caso italiano è una sola, indiscussa: scoprire chi ha ucciso Giulio Regeni. Solo per precisarlo, va detto che nei documenti trasmessi dagli egiziani ai nostri inquirenti il nome dell’assassino non c’è.
Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, il pubblico ministero Sergio Colaiocco e gli investigatori dello Sco della Polizia di Stato e del Ros dell’Arma dei Carabinieri stanno guardando in ogni dettaglio il dossier consegnato dagli inquirenti del Cairo. Incartamenti, a una prima sensazione, non proprio sconvolgenti nella rivelazione di verità finora ignote. Anzi, a quanto pare, forse neanche completi nelle informazioni minime necessarie richieste dall’Italia.
Secondo alcune indiscrezioni mancherebbero almeno un paio di elementi fondamentali chiesti dalle nostre autorità da oltre un mese e mezzo: l’analisi delle celle telefoniche, come e perché i documenti di Giulio siano spuntati fuori due mesi dopo la scomparsa a casa della sorella del presunto capo di una banda di sequestratori ucciso dalle forze di polizia.
In realtà la sfida di Giuseppe Pignatone e del suo pool, oggi, non è tanto la conta e la qualità delle carte rese disponibili dagli egiziani, segnale comunque indicativo delle intenzioni del Cairo. Proprio dopo lo scambio di ieri – gli investigatori romani, tra l’altro, hanno consegnato i risultati nell’autopsia delle torture atroci e orribili subite da Regeni prima di morire – oggi, guardandosi negli occhi, sarà difficile sfuggire al quesito cruciale. Se cioè l’Egitto vuole davvero collaborare, in piena trasparenza e disponibilità, per l’accertamento della verità su Regeni. Oppure continuare in un balletto intollerabile di mezze verità, troppe bugie e depistaggi continui. La delegazione egiziana era guidata dal procuratore generale aggiunto egiziano Mostafa Soliman, accompagnato dal segretario del procuratore generale Mohamed Hamdy El Sayed e da quattro ufficiali di polizia: il generale Adel Gaffar, della National Security; il vicedirettore della polizia criminale del Governatorato di Giza Mostafa Meabed; il vicedirettore delle indagini criminali di Giza Alaa Azmi – il vice del generale Kaled Shalabi, che secondo le mail inviate da un anomimo al quotidiano Repubblica sarebbe colui che ha ordinato il sequestro e l’uccisione di Regeni – e Ahmed Aziz. Questi ultimi due hanno preso il posto del generale dei servizi centrali della polizia egiziana Alal Abdel Megid, inizialmente indicato nella delegazione ufficiale.
Secondo i media egiziani, il dossier consegnato dai sei inquirenti del Cairo conterrebbe «prove materiali» che «determinano nel dettaglio la maniera in cui è stato perpetrato il crimine senza però poter giungere al criminale». Ci sarebbero le registrazioni delle telecamere, l’autopsia completa, perfino un «registro delle chiamate dal suo telefono». Ma spesso le informazioni dei giornali egiziani si sono rivelate infondate. Come quella, circolata ieri, di un probabile incontro degli inquirenti del Cairo con i familiari di Regeni, che questi ultimi hanno smentito con decisione.
Marco Ludovico

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È una visita riparatrice di ben cinque giorni quella che il monarca saudita ha iniziato ieri in Egitto. Riparatrice per Adel Fattah al Sisi, non per re Salman. È il primo che deve rientrare nei ranghi della grande alleanza sunnita anti-Isis, non il secondo giustificarsi per sostenere l’economia egiziana senza l’entusiasmo di un tempo. Il saudita è arrivato con la promessa di sostanziosi nuovi aiuti: 20 miliardi di dollari in prodotti petroliferi, spalmati in cinque anni, più accordi sulla sicurezza del Sinai. Ma non esattamente quelli che si aspettava il presidente egiziano, in termini di investimenti.
È evidente che in nessuno dei cinque giorni del vertice fra i due più grandi paesi del mondo sunnita e arabo, si parlerà di verità sul caso Regeni. Il re né il presidente sono ferrati nel campo dei diritti umani. E l’Italia non pretenderebbe tanto. Quello che basta al nostro governo, ai giudici e all’opinione pubblica è che ne parlino gli inquirenti e i poliziotti egiziani in visita a Roma da mercoledì sera.
Oggi dovrebbe essere il giorno decisivo ma potrebbe anche non esserlo affatto. Non come lo intende la gente, stanca delle tante bugie, e che oggi vorrebbe conoscere i nomi degli assassini di Giulio Regeni, il vero svolgimento dei fatti, gli arresti e sentire le scuse. Per seppellire definitivamente in pace il giovane studioso italiano.
Le 3mila pagine dell’indagine egiziana e le 200 dei verbali delle testimonianze portate dagli egiziani, sono un faldone lungo da leggere. Ma i nostri investigatori non hanno bisogno di spulciarle tutte, riga dopo riga. La parte importante del materiale la conoscono già. E in quelle pagine non stanno cercando le generalità degli assassini: a dispetto delle nostre aspettative e dell’ansia di verità, forse per quello occorre ancora tempo perché probabilmente dietro quei nomi c’è anche uno scontro fra poteri all’interno del regime.
La prova che vogliono i nostri dagli egiziani è la sincerità della loro collaborazione. I giudici di Roma e la squadra degli investigatori che ha passato al Cairo settimane deludenti, trascorse a respingere muri di gomma, sono in grado di capire se questa volta, finalmente alla dodicesima ora, gli egiziani stiano facendo sul serio. È questo il nostro obiettivo. Se oggi i giudici italiani ritroveranno solo il solito tentativo di costruire prove falsificate, al governo non resterà che intervenire diplomaticamente con la maggiore durezza già minacciata. Il governo dovrà chiarire a se stesso fino a dove intende spingere la crisi con l’Egitto, quali costi politici ed economici questo comporti.
Ma non dovremo sentirci ingannati se in quelle 3mila pagine non ci sarà la felice chiusura del caso ma solo il segno che la strada verso la verità è quella giusta. Un’indicazione in questo senso sarebbe la continuazione della visita dei giudici egiziani a Roma, e dei loro incontri con i colleghi italiani. Proprio di questo ieri sera parlava un giornale online egiziano abbastanza credibile, Youm7. La giustizia richiede determinazione ma anche grande pazienza.
Ugo Tramballi