Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2016
Il crollo in Borsa delle banche europee, spiegato bene
C’è ormai un inquietante e clamoroso caso banche sui mercati, esacerbato fino al parossismo a Piazza Affari, ma che scuote con forza l’intero settore in Europa, di fatto non risparmiando nessuno. Negarlo a questo punto con l’indice bancario italiano che ha perso in tre mesi il 40% del valore e con lo Stoxx di settore in Europa sotto di oltre il 26% (e del 38% a un anno) sarebbe miope se non sciocco. Si possono addurre molteplici ragioni al disastro borsistico del credito in Europa. Si può pensare che per l’Italia valgano le preoccupazioni sul salvataggio, a colpi di aumenti di capitale garantiti dai due big del credito, di Vicenza e Veneto Banca o che le fusioni tra Popolari vengano ammesse dalla Vigilanza Bce, come è accaduto per Bpm e il Banco Popolare, solo se accompagnate da nuove ricapitalizzazioni. O che lo strumento per la cartolarizzazioni delle sofferenze non renderà immuni le banche italiane da nuove perdite. Si può pensare a ragione tutto ciò, ma allora perché le grandi banche inglesi, Barclays e Rbs hanno perso oltre il 30% da inizio anno? O perchè la francese SocGen è in rosso del 29%? E qual è il male oscuro che attanaglia Deutsche Bank che ha un passivo in Borsa del 39%, in linea con il rosso dell’indice bancario italiano? Parrebbe bizzarro. Lì nei colossi dell’investment bank del Nord Europa non ci sono i cumuli di sofferenze delle banche italiane o non ci sono salvataggi interbancari da effettuare. In realtà lo sguardo spesso concentrato solo sull’Italia fa smarrire le ragioni profonde del malessere collettivo in Europa. La verità o meglio la ragione più autentica della fuga dalle banche è in quel cortocircuito che il mercato percepisce tra le ragioni (le ossessioni?) della solidità e quindi la stretta forte della regolazione e il contesto economico attuale e futuro che in realtà vedono un calo di redditività diffuso per le banche. Se stringi le regole, imponi sempre più capitale, freni ulteriomente la profittabilità già compromessa in una fase tra l’altro di ripresa che si infiacchisce in Europa. Insomma il contesto operativo per le banche (tutte) è dei peggiori: con i tassi a zero previsti da qui in poi per un lungo tempo le banche faranno i conti con margini d’interesse più che calanti e quindi minor profittabilità. Certo il Tltro lenirà ma solo in parte questa ferita. Per chiuderla servirebbe un riavvio potente degli impieghi. Riavvio che va a braccetto con una forte ripresa del ciclo in eurozona, ripresa che non appare così intensa come servirebbe a produrre maggiori impieghi per le banche. Poi c’è l’effetto destabilizzante della frenata di Cina ed emergenti (con effetti anche finanziari) e del greggio troppo basso. Contesto che si presenta difficile per chi eroga credito e per i suoi conti. Banche colpite sul margine d’interesse, quindi. M a non solo. Se fosse solo questo, il mirino del ribasso sarebbe solo sulle banche periferiche. Invece crollano anche i colossi del Nord Europa. Per loro più che i ricavi da prestiti contano le perplessità sui loro attivi pieni di titoli illiquidi e derivati. Molti pensano che sia in vista un’armonizzazione degli attivi a rischio (Rwa) che penalizzerà proprio le banche tedesche e inglesi che vedranno pesato il rischio sui portafogli e questo necessiterà di nuovi aumenti di capitale. È qui il cortocircuito un po’ schizofrenico tra mercato (che cerca la redditività) e le Autorità di Vigilanza che cercano la solidità. Le due cose, legittime entrambi, sono incompatibili tra loro in questo momento. Se stringi sul capitale abbatti la redditività, al contrario se lasci mano lasca accontenti il mercato ma a rischio della stabilità. Il problema è che sono i tempi che non coincidono: se fai i rafforzamenti patrimoniali in un ciclo economico favorevole neutralizzi gli effetti sulla profittabilità. Se li imponi in un clima di deterioramento amplifichi l’effetto nefasto sulla profittabilità. E allora non bisogna stupirsi se molte banche valgono oggi il Borsa meno della metà del loro capitale, dato che il Roe che producono, otto anni dopo la crisi Lehman è meno della metà di quello pre-crisi.