Il Messaggero, 8 aprile 2016
Esce il nuovo album di Renato Zero, che si sente il David Bowie de noantri
Renato non perde il vizio, ammesso che di vizio si tratti. Imperterrito, quarant’anni e ventisette dischi dopo eccolo alzarsi in piedi e lanciare il suo monito: Alt, proclama stavolta, in un disco di canzoni scorrevoli e cantabili ma che fanno il contropelo nei testi. E lo stop a chi è rivolto? Il catalogo è ampio. Nemici miei, titola un pezzo, che suona come una delle suoi pezzi anni 70. Si va dai politici (animati, così canta, da «sete di potere, quando è comodo il sedere») e i loro parenti (tema di stretta attualità), ai sindacalisti (che «vanno a finire a Montecitorio, è scandaloso e incomprensibile»), agli approfittatori, a Internet, quando se la prende con quei «sorcini, forse sprovveduti» che mercoledì notte hanno messo in rete il suo album: «Rivolgo a loro una preghiera: non venite più ai miei concerti e non acquistate i miei dischi, grazie». E poi ce ne è per i talent: «Vedo tanto copia-incolla. Soprattutto nelle femminucce. Sembrano uscite da un collegio, uscite da un processo di omogenizzazione».
Alt sembra il risvolto di Amo, l’album precedente, uscito tre anni fa. Ma poi, a ben ascoltare e sentire, le differenze non sono poi tante. Perché Renato Zero, il David Bowie de noantri («allora lui è il Renato Zero inglese» scherza), continua ad assomigliare pervicacemente a se stesso: «Sono felice di non aver perso la buona abitudine di dire quello che penso. Se vedo del marcio in Danimarca non posso stare zitto. Se non lo facessi non sarei più Renato Zero. Ho parlato nelle mie canzoni passate di pedofilia, di rivoluzione dei costumi, di portatori di handicap. Non potrei cantare di amore e basta».
RIVOLUZIONE
Così, eccolo ancora lì a remare, sfornare dischi e canzoni, vestire i panni del saggio, rivolgersi ai «ragazzini consumati dall’esasperazione, buttati davanti alle telecamere senza aver fatto gavetta e invece penso che vorrebbero farsi il mazzo per sentirsi pronti», perfino invitare alla Rivoluzione (perché canta: «Politica assente famiglia vacante/quaggiù si congeda anche Dio/Se la corda si spezza s’incendia la piazza»). O inventare una sorta di orazione laica («Gesù non ti somigliamo più»). Pessimista? «Sono un sollecitatore. Mi piace poter stimolare la gente, soprattutto quelli che hanno la vocina più esile e non hanno raccomandazioni». E sul tema del giorno, il referendum sulle trivellazioni, prende esplicitamente posizione facendo ricorso alla memoria: «Quattro anni fa con Lucio Dalla cantai alle Tremiti contro i nuovi impianti che rischiavano di deturpare quel paradiso». E a un altro tema d’attualità, l’intolleranza, dedica una canzone, Vi assolverete mai: «A Roma per strada nel 68 mi gridavano ’a frocio. Ma quello che fa rabbia è che all’epoca a essere intolleranti erano i quarantenni, oggi sono i giovanissimi».
Un disco rappresenta sempre l’apertura di un nuovo capitolo. E, per Renato, la prossima tappa è all’Arena di Verona dove tornerà il 1 e il 2 giugno: «Ci torno per riprendermi tre malleoli che ci ho lasciato 18 anni fa» scherza, ricordando un volo da due metri nel backstage del Palasport per una botola lasciata aperta. Poi aggiunge: «Sto riflettendo su come fare. Diventa una sfida con me stesso. Del resto se non lo metti in azione, il motore si blocca» racconta. E lancia dubbi sull’idea di infiltrare degli ospiti: «Diventa sempre una lotta a chi è più forte dell’altro. Allora lo lascio agli altri». Testardo, profondamente legato alla sua città («i romani vivono a Tor Vergata, in periferia: in centro solo vescovi, politici e fattorini. Ma non cambierei Roma con nessuna città») non molla su Fonopoli: «È un sogno che avevo e che ho. Qualcuno ha detto che non volevamo realizzare nulla. Ma io ho solo rinunciato a un progetto che trasformava l’idea in un centro commerciale con 27 mila metri quadrati dedicati agli esercizi commerciali e 5 mila a Fonopoli. Recentemente abbiamo fatto un nuovo sopralluogo e parlato con un’associazione no profit. Prima o poi ce la faremo».